giovedì

una saltuaria lettura: il viaggiatore incantato

walter benjamin, immagini di città;
(einaudi 2007, pag 144, euro 16.00)

In un provocatorio saggio sulla provincia italiana, l'antropologo Franco La Cecla narra che a una festa milanese un giovane rampollo della borghesia bresciana raccontava agli amici di essere andato in vacanza in Egitto. Cinque giorni a Sharm El Sheik in un albergo di lusso. A suo modo si era divertito: mare, sole, relax, sport, buffet, sesso ecc. Alla richiesta di come fossero gli Egiziani aveva risposto “Carini”.
Così vive e ragiona il moderno turista di massa. Beninteso nulla a che vedere con l'avventura seria e pericolosa che nel 1787 Goethe ebbe a Malcesine sul lago di Garda con gli abitanti del luogo, come riferisce egli stesso nel celebre Viaggio in Italia (1786-1788). Insomma siamo di nuovo alla vecchia contrapposizione ideologica tra viaggiatori e turisti. Già Roland Barthes nelle sue penetranti Mythologies (1957), analizzando le guide turistiche, aveva messo in luce l'operazione di mistificazione che accompagna tutta l'industria del turismo. A suo avviso colorare il mondo è sempre un mezzo per negarlo e privarlo della sua storia. Certamente con la globalizzazione, Internet e il multiculturalismo il contrasto dialettico tra l'uniformazione capitalistica e la pluralità dissonante delle differenze culturali assume percorsi molteplici e controversi. Tuttavia è questo l'inquietante paradosso: nel villaggio globale va scomparendo la capacità di fare esperienza dell'alterità. Inutile comunque rimpiangere romanticamente l'epoca gloriosa del Grand Tour dei viaggiatori europei. Ormai siamo circondati dall'autenticità artefatta del turismo di massa e dagli stereotipi della semicultura mediatica. Infine, per farsi un'idea sul significato e la storia del viaggio nella cultura occidentale, dall'Odissea al turismo globale, si rimanda alla lettura del fondamentale saggio di Eric Leed La mente del viaggiatore (Il Mulino, 1992). Di questi tempi, parafrasando l'esordio dei Tristi Tropici (1955) di Claude Lévi-Strauss, forse il più bel libro di viaggi del Novecento, non ci resta che odiare i viaggi. Meglio allora restarsene a casa, al riparo dall'orda tumultuosa e schiamazzante dei turisti, e magari leggere un buon libro di viaggi.Di recente, a cura di Enrico Ganni, è uscita una nuova edizione aumentata di Immagini di città (Einaudi, 2007, pp. 144, euro 16,00) di Walter Benjamin. Questo libro postumo fu assemblato nel 1955 da Peter Szondi e ora viene riproposto con l'aggiunta di tre scritti e una prefazione di Claudio Magris. Si tratta di una serie di articoli-reportage, scritti negli anni fra il 1925 e il 1930 per giornali e riviste, sulle città dove al critico e saggista ebreo-tedesco per diverse ragioni capitava di soggiornare: Parigi, Marsiglia, Weimar, Napoli, San Gimignano e soprattutto Mosca. Per Benjamin la città moderna è un serbatoio sconfinato e labirintico di immagini, sogni e miti. Uno spazio di transito attraversato da energia, forze sconvolgenti, rovine polverose, utopie infrante e attese messianiche. Egli percorre e attraversa le città come un malinconico rabdomante, consegnandosi alla fantasmagoria delle forme e delle espressioni. Con il suo magistrale sguardo micrologico da detective metropolitano, le ritrae come miniature estranianti e seducenti. Attraverso l'accumulo di descrizioni caleidoscopiche, ci offre quasi delle istantanee che cercano di fissare l'effimero della vita. La porosità di Napoli che trabocca dall'architettura degli edifici, dalla ritualità cattolica e dalla vitalità stracciona del popolo; l'effervescenza proletaria e rivoluzionaria di Mosca che si riversa nell'esistenza collettiva delle strade; la graziosa e piccolo borghese Weimar di Goethe, la Parigi capitale del XIX secolo con i suoi passages dove si celebra il trionfo delle merci; la Marsiglia salmastra del porto, dell'hascisc e dei traffici miserabili; il borgo di San Gimignano racchiuso dalle sue mura e come sospeso tra cielo e campagna. Per Benjamin la città è un fitto e multiforme involucro di segni e desideri da decifrare, di indizi perduti e sepolti da riportare alla luce. Modulando flânerie surrealista e straniamento brechtiano, egli conduce il lettorealla deriva continua tra scorciatoie e deviazioni, prefigurando per certi versi il détournement dei situazionisti.Come lo stralunato e taciturno Palomar di Italo Calvino, egli sa che la superficie delle cose è inesauribile.In Infanzia berlinese Benjamin osservava acutamente che: “Non sapersi orientare in una città non significa molto. Ci vuole invece una certa pratica per smarrirsi in essa come ci si smarrisce in una foresta. I nomi delle strade devono parlare all'errabondo come lo scricchiolio dei rami secchi, e le viuzze del centro gli devono scandire senza incertezze, come in montagna un avvallamento, le ore del giorno. Quest'arte l'ho appresa tardi; essa ha esaudito il sogno, le cui prime tracce furono i labirinti sulle carte assorbenti dei miei quaderni”. Secondo Peter Szondi, nella poetica da collezionista ambulante di Benjamin permane sempre il ricordo dell'infanzia come fascinosa curiosità e apertura all'altro e al diverso. Egli non ricerca l'esotico e il pittoresco come qualsiasi turista contemporaneo. Al contrario il suo sguardo materialista e messianico è rivolto al futuro come promessa di felicità e di riscatto per gli esclusi e i vinti di sempre. Come sappiamo il viaggio tormentato di questo infelice ebreo errante terminerà tragicamente a Port Bou. Percorse le strade d'Europa in tempi bui come un profugo senza patria, “con la grande valigia in grembo”.

(recensione di Pierluigi Vuillermin)

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