mercoledì

Pro e Contro Marx, Ritrovarlo sotto le macerie dei marxismi-Edgar Morin (2010 Erickson)

a cura di Alessandro Pascale

Edgar Morin è uno delle menti “post-marxiste” senz’altro più interessanti in circolazione per curriculum politico e varietà di approcci disciplinari. La sua vita inoltre, come ci tiene a far sapere lui stesso, è estremamente simbolica dell’evoluzione del ventesimo secolo, anche se in controtendenza per ciò che riguarda l’ultimo ventennio, quando staccandosi dai numerosi detrattori della filosofia marxiana ha scelto di tornare a recuperare quest’ultima in maniera critica combattendo il degradante e irrazionale abbandono cui rischiava di venire lasciata.
Recuperare Marx non però in un’ottica marxista (cioè in una dottrina sistematizzata e totalizzante) bensì marxiana (accogliendo cioè la sua logica di pensiero aperto in continua evoluzione, suscettibile di continue modifiche e miglioramenti), evitando qualsiasi tipo di dogma, base per messianismi di sicuro impatto deleterio sul lungo termine.
Ma su questi concetti Morin non è particolarmente illuminante, ripetendo discorsi e argomentazioni sostanzialmente già sentiti dalla gran parte degli autori “seri” che da un certo periodo di tempo si ri-approcciano all’autore tedesco.
In realtà ci sono alcuni punti squisitamente peculiari che vale la pena sottolineare della raccolta di saggi di Morin:

“Bisogna conservare per rivoluzionare e rivoluzionare per conservare”, ossia “la constatazione imprescindibile che la rivoluzione ha bisogno di conservare non solo i nostri esseri biologici, ma anche la natura, la biosfera, la diversità del mondo, le culture che vogliono vivere, l’eredità del passato che contiene i germi del futuro.”
Siamo cioè di fronte al semplice concetto che qualsiasi messaggio si riconduca a ciò che ha rappresentato “l’universo rosso” del ventesimo secolo oggi non può che rifondarsi ripartendo dall’imprescindibilità di un legame con la questione ambientale. In fondo era una connessione già evidente con la dottrina della decrescita di Serge Latouche, ma la novità è il rovescio della medaglia: “bisogna rivoluzionare per conservare” è l’evidente considerazione che non c’è possibilità di salvezza terrena senza un cambiamento radicale, rivoluzionario per l’appunto, del sistema economico mondiale e di ciò che lo guida: la mentalità umana. La vera rivoluzione deve avvenire nell’uomo insomma, e non è per Morin un passaggio scontato, conferendo egli (giustamente a parere del sottoscritto) la totale libertà di decidere come sarà il mondo futuro, allontanandosi quindi da ogni forma di determinismo socio-economico. Gli uomini possono cambiare le cose, bisogna solo capire se lo vogliono davvero, se prenderanno una coscienza tale da volerlo. Inevitabile per il sottoscritto il nesso tra questo passaggio e quello dell’etica della comunicazione strutturata da Karl Otto Apel. Indispensabile infatti per creare quella cittadinanza globale di cui parla Morin cercare di definire un sistema valoriale universale accettabile da chiunque, e che sia in grado di responsabilizzare ogni singolo abitante del pianeta.

Qui entra in gioco una seconda questione interessante dell’opera di Morin: la sua rinnovata concezione antropologica che porta ad escludere una certa unidimensionalità dell’essere umano (caro Marcuse sei passato di moda!), a scapito di una eterogeneità che può essere riassunta nella definizione “homo sapiens-demens”. L’uomo cioè non si può considerare solo nelle sue attività prosaiche (tecnica, lavoro, materialità) ma bisogna tener conto anche delle sue attività poetiche (la festa, il gioco, la danza, l’allegria, l’amore, l’estasi, l’immaginazione, l’avventura), non nell’ottica di oscurarle, ma di tenerle in debito conto e anzi nobilitarle quando occasione (cioè non arrecante danno altrui) di realizzazione individuale.
“Dobbiamo introdurre il mistero della politica, l’arte più incerta di tutte.”
Rinobilitare la politica passa anche da qui: riconferirle un aspetto umano che esca dalla mera amministrazione della materialità. Questo Vendola in Italia l’ha capito benissimo. E forse è la prima volta che ciò accade a sinistra senza scadere in simbologie e messianismi ormai fuori tempo massimo. E’ chiaro che le incognite riguardanti questa concezione della politica sono ancora evidenti, ma è senz’altro prezioso esser riusciti a cogliere finalmente un aspetto che le destre hanno saputo sfruttare inconsciamente nell’ultimo trentennio.

La condizione degli intellettuali nell’URSS di Stalin.
E’ una questione inquietante: perché gli intellettuali non hanno reagito a Stalin? Non si parla soltanto di quelli sovietici, i quali potevano più o meno forzatamente essere obbligati al silenzio, ma anche di gran parte di quelli europei, la maggior parte dei quali si è svegliata dal “sonno dogmatico” solo nel 1956 con la destalinizzazione.
La risposta di Morin è che lo stalinismo, nel suo mix di necessitarismo e messianesismo, era perfettamente adeguato alla teorizzazione astratta e assoluta, quella per cui l’idea vale più di ogni concretezza. Quella quindi per cui il socialismo è una meta ultima per cui si può pensare di sacrificare qualche migliaia se non milione di persone. Probabilmente Aristotele non pensava che la ricerca del bene tramite la fusione tra prassi e attività contemplativa potesse condurre ad esiti tanto aberranti. Ma probabilmente non lo pensava neanche Marx. Lenin forse sì, l’aveva intuito. Ma d’altronde quando ti trovi Stalin sul letto di morte certe cose le intuisci di getto…

“La politica è l’unica vera arte, e in sé rappresenta il contraddittorio”. Questa non ve la spiego perché voglio invitarvi alla lettura, ma l’ho trovata davvero geniale!