mercoledì

Pro e Contro Marx, Ritrovarlo sotto le macerie dei marxismi-Edgar Morin (2010 Erickson)

a cura di Alessandro Pascale

Edgar Morin è uno delle menti “post-marxiste” senz’altro più interessanti in circolazione per curriculum politico e varietà di approcci disciplinari. La sua vita inoltre, come ci tiene a far sapere lui stesso, è estremamente simbolica dell’evoluzione del ventesimo secolo, anche se in controtendenza per ciò che riguarda l’ultimo ventennio, quando staccandosi dai numerosi detrattori della filosofia marxiana ha scelto di tornare a recuperare quest’ultima in maniera critica combattendo il degradante e irrazionale abbandono cui rischiava di venire lasciata.
Recuperare Marx non però in un’ottica marxista (cioè in una dottrina sistematizzata e totalizzante) bensì marxiana (accogliendo cioè la sua logica di pensiero aperto in continua evoluzione, suscettibile di continue modifiche e miglioramenti), evitando qualsiasi tipo di dogma, base per messianismi di sicuro impatto deleterio sul lungo termine.
Ma su questi concetti Morin non è particolarmente illuminante, ripetendo discorsi e argomentazioni sostanzialmente già sentiti dalla gran parte degli autori “seri” che da un certo periodo di tempo si ri-approcciano all’autore tedesco.
In realtà ci sono alcuni punti squisitamente peculiari che vale la pena sottolineare della raccolta di saggi di Morin:

“Bisogna conservare per rivoluzionare e rivoluzionare per conservare”, ossia “la constatazione imprescindibile che la rivoluzione ha bisogno di conservare non solo i nostri esseri biologici, ma anche la natura, la biosfera, la diversità del mondo, le culture che vogliono vivere, l’eredità del passato che contiene i germi del futuro.”
Siamo cioè di fronte al semplice concetto che qualsiasi messaggio si riconduca a ciò che ha rappresentato “l’universo rosso” del ventesimo secolo oggi non può che rifondarsi ripartendo dall’imprescindibilità di un legame con la questione ambientale. In fondo era una connessione già evidente con la dottrina della decrescita di Serge Latouche, ma la novità è il rovescio della medaglia: “bisogna rivoluzionare per conservare” è l’evidente considerazione che non c’è possibilità di salvezza terrena senza un cambiamento radicale, rivoluzionario per l’appunto, del sistema economico mondiale e di ciò che lo guida: la mentalità umana. La vera rivoluzione deve avvenire nell’uomo insomma, e non è per Morin un passaggio scontato, conferendo egli (giustamente a parere del sottoscritto) la totale libertà di decidere come sarà il mondo futuro, allontanandosi quindi da ogni forma di determinismo socio-economico. Gli uomini possono cambiare le cose, bisogna solo capire se lo vogliono davvero, se prenderanno una coscienza tale da volerlo. Inevitabile per il sottoscritto il nesso tra questo passaggio e quello dell’etica della comunicazione strutturata da Karl Otto Apel. Indispensabile infatti per creare quella cittadinanza globale di cui parla Morin cercare di definire un sistema valoriale universale accettabile da chiunque, e che sia in grado di responsabilizzare ogni singolo abitante del pianeta.

Qui entra in gioco una seconda questione interessante dell’opera di Morin: la sua rinnovata concezione antropologica che porta ad escludere una certa unidimensionalità dell’essere umano (caro Marcuse sei passato di moda!), a scapito di una eterogeneità che può essere riassunta nella definizione “homo sapiens-demens”. L’uomo cioè non si può considerare solo nelle sue attività prosaiche (tecnica, lavoro, materialità) ma bisogna tener conto anche delle sue attività poetiche (la festa, il gioco, la danza, l’allegria, l’amore, l’estasi, l’immaginazione, l’avventura), non nell’ottica di oscurarle, ma di tenerle in debito conto e anzi nobilitarle quando occasione (cioè non arrecante danno altrui) di realizzazione individuale.
“Dobbiamo introdurre il mistero della politica, l’arte più incerta di tutte.”
Rinobilitare la politica passa anche da qui: riconferirle un aspetto umano che esca dalla mera amministrazione della materialità. Questo Vendola in Italia l’ha capito benissimo. E forse è la prima volta che ciò accade a sinistra senza scadere in simbologie e messianismi ormai fuori tempo massimo. E’ chiaro che le incognite riguardanti questa concezione della politica sono ancora evidenti, ma è senz’altro prezioso esser riusciti a cogliere finalmente un aspetto che le destre hanno saputo sfruttare inconsciamente nell’ultimo trentennio.

La condizione degli intellettuali nell’URSS di Stalin.
E’ una questione inquietante: perché gli intellettuali non hanno reagito a Stalin? Non si parla soltanto di quelli sovietici, i quali potevano più o meno forzatamente essere obbligati al silenzio, ma anche di gran parte di quelli europei, la maggior parte dei quali si è svegliata dal “sonno dogmatico” solo nel 1956 con la destalinizzazione.
La risposta di Morin è che lo stalinismo, nel suo mix di necessitarismo e messianesismo, era perfettamente adeguato alla teorizzazione astratta e assoluta, quella per cui l’idea vale più di ogni concretezza. Quella quindi per cui il socialismo è una meta ultima per cui si può pensare di sacrificare qualche migliaia se non milione di persone. Probabilmente Aristotele non pensava che la ricerca del bene tramite la fusione tra prassi e attività contemplativa potesse condurre ad esiti tanto aberranti. Ma probabilmente non lo pensava neanche Marx. Lenin forse sì, l’aveva intuito. Ma d’altronde quando ti trovi Stalin sul letto di morte certe cose le intuisci di getto…

“La politica è l’unica vera arte, e in sé rappresenta il contraddittorio”. Questa non ve la spiego perché voglio invitarvi alla lettura, ma l’ho trovata davvero geniale!

venerdì

Rock the casbah!-Mark LeVine (ISBN 2010)

a cura di Alessandro Pascale

Se vi interessa conoscere in maniera approfondita il mondo islamico “non convenzionale”, quello che rappa testi sacri come inni di protesta politica, o che scatena riff metal infuocati ritrovandosi in cantine per aggirare la censura, o che sfrutta i blog per diffondere musiche punk e rock diventando tra i siti più cliccati del Medio Oriente, se vi interessa conoscere almeno una parte di come realmente si svolge la vita in paesi come Marocco, Libano, Pakistan, Palestina, Egitto e Libano, allora Rock the casbah! è il libro che fa per voi.
La bellezza dell’opera di Mark LeVine non è solo quella di farci conoscere un mondo musicale assolutamente ignoto, ma anche di riuscire a far emergere le mille sfumature del mondo islamico (e non solo, Libano e Israele docent), molto più variegato e complesso di quanto è solito credere la maggior parte della gente comune che parla per sentito dire (magari dalla Lega…) o per dare aria alla bocca.
Ad esempio viene affrontata la questione del rapporto tra metal e islam: l’heavy metal ha sempre avuto anche in Occidente una pessima fama in certi ambienti, accusato di satanismo, immoralità, istigazione alla violenza, occultismo e via dicendo. Apparentemente sembrerebbe inconciliabile con la religione islamica, tant’è vero che non mancano gli estremisti (particolarmente grave è la situazione dell’Iran) che cercano di ostracizzarlo, soffocarlo e reprimerlo con ogni forza, anche per la sua origine d’importazione occidentale. Eppure ci sono anche moltissimi religiosi che non vedono inconciliabilità tra i due campi, e anzi in certi casi ne vedono addirittura dei vantaggi positivi.
Emerge che il vero motivo di soffocamento dei movimenti musicali underground è in realtà di origine politica: gran parte dei governi del Meda sono infatti democrazie unicamente di facciata, il cui sistema politico corrotto è sostenuto e legittimato dalle politiche imperialiste e neocolonialiste degli USA, che non per niente diventano spesso oggetto di odio e di invettiva, identificati come il vero grosso problema che impedisce ai popoli arabi di nutrire speranza in un prossimo cambiamento politico futuro.
In questo contesto illiberale le musiche “alternative” sono in molti casi l’unica forma di opposizione possibile: non in un’ottica di scontro frontale con il regime (che sarebbe suicida) ma di creazione di sottoculture caratterizzate pubblicamente solo da un’alterità musical-culturale, che solo nel privato si espone a livello di critica politica.
Borgna in passato ha detto che una rivolta immaginaria (ossia culturale) apre la porta alla vera rivolta politica, ed in ogni caso va vista come un fattore positivo, in quanto permette l’uscita dall’omologazione social-culturale e la formazione di un gruppo critico in grado di trasformarsi in qualcosa di più pericoloso per le istituzioni. E’ quello che è successo nel ’68 in fondo, con l’avvio di una fase che in Italia si è prolungata per un decennio.
Quello che LeVine si augura spesso durante l’opera infatti è la saldatura di questi movimenti di controcultura con i nuclei politici più progressisti. Gli uni senza gli altri da soli non hanno altre possibilità che quelle di vivacchiare tra mille pericoli, ma la loro unione potrebbe portare un giorno al tracollo dei governi autocratici e illiberali della quale conservazione siamo responsabili soprattutto noi occidentali. La storia ci farà sapere come andrà a finire.

sabato

Non piangere coglione-Amedeo Romeo (ISBN 2010)

a cura di Alessandro Pascale

Il primo romanzo di Amedeo Romeo (in passato autore e regista teatrale nonché traduttore e autore di libri per bambini e ragazzi) è una roba veramente deflagrante e scoppiettante: ritmo a mitraglia, piglio giovanile, linguaggio accattivante, surrealismo andante e una tecnica letteraria che rielabora con italica precaria freschezza lo stream of consciousness britannico di una volta (Joyce, Wolf, ecc). La storia di Andrea Morini, trentenne non più giovane che passa le giornate nel torpore più assoluto, eccitandosi alla visione di una qualsiasi donna incinta e all’odore delle creme per le smagliature da loro usate, è una storia perversa che potrebbe a prima vista rievocare il più cristallino stampo bukowskiano. E’ giusto solo in parte in realtà, perché se è vero che non mancano descrizioni dettagliate di fantasie erotiche ed esperienze sessuali masturbatorie (clamorosa quella in cui il protagonista si tocca lasciandosi sprofondare in vasca e canticchiando l’Internazionale sott’acqua) e complete (i numerosi rapporti con Lena, donna incinta all’ottavo mese che si legherà a lui in un rapporto molto speciale), bisogna anche constatare la profonda poesia e il ritmo narrativo pop che permeano molti passaggi dell’opera, dandogli un tocco di classe e di raffinatezza davvero notevoli. La vera distanza con Bukowski però sta nell’esistenzialismo e nello psicologismo continuamente sottesi e oggetto di domanda, laddove l’autore americano di dubbi ne aveva ben pochi, preferendo concentrare l’attenzione su un descrittivismo asciutto e sicuro di sé.
Il vero valore aggiunto dell’opera è la costruzione di un personaggio complesso e variegato come il protagonista: apparentemente disadattato, incapace di mantenere uno stile di vita regolare, immaturo, irresponsabile, egocentrico, probabilmente pervaso da turbe psichico-sessuali (vorrebbe essere donna e provare l’esperienza della maternità) Andrea Morini è lo specchio di una generazione di trentenni che è andata molto in là rispetto ai coetanei dell’Ultimo bacio, rifiutando in toto lo stile di vita borghese in ogni sua forma, non solo in quella social-religiosa della famiglia tradizionale con moglie e figli. Ha lasciato incinta due ragazze diverse per poi abbandonarle subito. Ha perso ogni sogno, passione o illusione che la propria vita possa regalargli qualcosa di buono. Il suo completo abbandono della razionalità meditata a discapito di un primitivo e selvaggio “istintismo” animale contrastano nettamente con la rigidità e le regole della società circostante e sono un motivo ricorrente che crea un effetto comico esilarante. Il finale è simbolico e sancisce la conclusione di un lungo percorso di formazione durato vent’anni, al termine del quale il protagonista riacquista la sua dignità di uomo, e si prepara ad affrontare finalmente quel mondo fatto di responsabilità senza svendere del tutto la propria natura individuale e anarchica, ma trovando in Lena, anch’essa in una certa maniera distaccata da certi “canoni classici”, il giusto punto di equilibrio per recuperare un senso della socialità e del valore dei rapporti umani basilari. Non piangere coglione è un’opera che vi farà morire dal ridere, talvolta vi scioccherà, infine avrete forse anche un brivido di disgusto, ma se siete di larghe vedute non potrete non apprezzarlo. NB: Astenersi bigotti perditempo e clericali reazionari.

giovedì

L’inedito di Hemingway-David Belbin ( ISBN 2010)

a cura di Alessandro Pascale

ISBN strikes again! Per chi avesse ancora particolari dubbi L’inedito di Hemingway è la conferma che la casa editrice diretta da Massimo Coppola è una delle realtà più importanti dell’industria letteraria italiana odierna. Che sia saggistica, narrativa o poesia, non c’è mai da annoiarsi, anzi si ride, si riflette, si rimane affascinati dalla suggestione creata da lavori di altissimo livello.
L’inedito di Hemingway ad esempio, è una splendida prosa sciolta che scivola via come un fresco gelato in una torrida giornata estiva. La scorrevolezza della narrazione e l’utilizzo di un lessico popolare (senza essere volgare) sono caratteristiche che l’autore, David Belbin, si porta senz’altro dietro dai fortunati trascorsi nella narrativa per ragazzi (opere di successo come I fabbricanti di nebbia e Lezioni d’amore), messe da parte per il vittorioso approdo alla letteratura per adulti. Non pienamente inserita nel duro mondo degli adulti siamo in realtà di fronte ad un’opera “di mezzo”, che mantiene un occhio privilegiato per l’età adolescenziale dalla quale il protagonista, Mark Trace, esce progressivamente e quasi inconsapevolmente, raggiungendo gradualmente l’emancipazione lavorativa, le prime avventure sessuali e la capacità di ingannare il prossimo. Il tutto però senza riuscire ad assumere uno status di vita regolare secondo i canoni della morale borghese, mantenendo anzi intatta la capacità di farsi guidare dal proprio più grande sogno: diventare uno scrittore. Un romanzo di formazione insomma, che si districa tra scadenti riviste di provincia, incontri con donne emancipate e ragazzine alle prime armi, scrittori in erba di dubbio successo e vecchi editori omosessuali. Ma soprattutto trionfano loro: i classici del Novecento, quei grandi autori che per la vicinanza storica non sono ancora studiati come dovrebbero dalle università, e la cui grandezza è oggetto di disputa tra critici di dubbia attendibilità.
Mark sogna di diventare uno di loro, ma il suo talento pare consistere unicamente nel riuscire a imitare alla perfezione lo stile dei vari autori. Forse col tempo riuscirà a trovare uno stile personale e a raggiungere la fama internazionale, ma nel frattempo per vari motivi ottiene apprezzamenti indiretti grazie a brevi racconti che spaccia come opere di autori del calibro di Hemingway e Greene. Senza spoilerare troppo ci limitiamo a constatare la bravura dell’autore nel riuscire a fondere una prosa agile, fresca e giovanile con una serie di riflessioni di notevole spessore: impossibile infatti non rilevare il nucleo originale dell’opera: la letteratura che imita la letteratura, o meglio la letteratura che racconta di un imitatore della letteratura altrui. Si viaggia tra Calvino e Borges insomma, mantenendo però un tasso di maggiore concretezza rispetto al primo e minore spessore filosofico (o se volete: di maggiore colloquialità) rispetto al secondo.
Insomma se non sono stato abbastanza chiaro, questa è materia di primissima qualità.

sabato

Controcanto di Marco Revelli, edizioni Chiarelettere

Questo "disagio dell'inciviltà" ci opprime. La svolta c'è già stata: le torture a Bolzaneto, le leggi contro i vagabondi, la caccia ai Rom, la segregazione degli immigrati, i "pacchetti sicurezza" del centrosinistra e la scelta a favore della guerra, la violenza contro i diversi e gli Altri. La "pedagogia del disumano" sembra essere oggi l'unica politica possibile. I diritti conquistati nel Novecento - uguaglianza, lavoro, libertà, cittadinanza - non sono più acquisiti in forma universale ma se mai concessi in modo selettivo. Il "Controcanto" di Revelli racconta la mutazione di questi anni, ponendosi dalla parte "sbagliata", di chi non ha nessuna garanzia e rappresentanza ed è escluso dal grande gioco della democrazia mediatica, plebiscitaria e disciplinare, dove è assente qualsiasi responsabilità civile e politica. Allora è necessario spezzare questa "rappresentazione" con un gesto estremo di secessione estetica ed etica, prima che politica. Un "controcanto" appunto, con un nuovo coro.

a cura di Piero Valleise

giovedì

Controcanto di Marco Revelli edizioni Chiarelettere

Per favore comunque la pensiate leggete l'ultimo libro di Marco Revelli "Controcanto".

martedì

Roberto Saviano

Venerdì 26 marzo arriverà nelle librerie il dvd del monologo che ROBERTO SAVIANO ha tenuto nel corso dello speciale di CHE TEMPO CHE FA nel marzo del 2009 .

Così presenta il cofanetto Roberto Saviano sul suo sito:


Attra­verso il rac­conto della cronaca quo­tid­i­ana ho cer­cato di far emerg­ere la realtà di una guerra sconosci­uta a gran parte del Paese. Migli­aia di morti negli ultimi dieci anni, tra cui decine di vit­time inno­centi: ecco la ver­ità del Sud Italia

Il titolo è LA PAROLA CONTRO LA CAMORRA (978880620218) e contiene oltre al dvd un saggio di Roberto.



Molte le iniziative per provuovere il cofanetto:

Giovedì 25 marzo
- Anticipazione su Repubblica con copertina dedicata di R2.
- Intervista di Mollica al TG1 delle 20

Venerdì 26 marzo
- Copertina del venerdì di Repubblica, Saviano sarà intervistato da Marco Cicala
- Su repubblica.it - intervista, estratto di due o tre minuti.

Domenica 28 marzo
- Incontro con Saviano all'interno di "Libri come" (la nuova festa del libro di Roma), presenta Marino Sinibaldi.

Domenica 11 aprile
- Partecipazione a "che tempo che fa"..

domenica

Giovanni De Luna-Le ragioni di un decennio. 1969-1979. Militanza, violenza, sconfitta, memoria (Feltrinelli, Milano 2009)

a cura di Alessandro Pascale

Il libro di De Luna andrebbe letto nelle scuole. Lo so che mi sono già trovato spesso a fare questa esclamazione per molti libri, d’altronde non è colpa mia se a scuola i ragazzi a malapena riescono ad arrivare in maniera decente alla seconda guerra mondiale e non sanno niente della storia della nostra Repubblica… Se gli parli di dc, psi, pli, msi si allontanano pensando che sei stato colpito da chissà quale morbo linguistico che fa straparlare. Se gli parli di pci gli viene voglia di giocare con il loro computer portatile. Però se gli parli di comunismo lì non c’è pericolo: la televisione ha fatto bene il suo dovere, e l’equiparazione con il fascismo non è mai casuale nelle vocine di questi simpatici adolescenti ignoranti. Gramsci, Togliatti e Berlinguer chi li ha mai sentiti?

Il dato terribile della nostra epoca presente è la perdita di memoria. Su questo credo siano un po’ tutti d’accordo. Studiosi, giornalisti, analisti, di destra, centro, sinistra, spesso anche sui giornali lamentano la perdita di memoria che sembra aver colpito la totalità degli italiani, sempre più rapiti e rimbambiti da ipod e grandi fratelli. Si lamenta ad esempio che il popolo non ricordi nemmeno che il lodo Alfano è una versione moderna del lodo Schifani, emanato appena un lustro prima, figurarsi quindi quanto possa essere forte la memoria degli italiani di un decennio ormai distante più di trent’anni: quello iniziato con le proteste studentesche e le lotte operaie di fine anni ’60 e terminato con la loro sconfitta di fine ’70, simboleggiata da una serie di eventi quali l’assassinio di Aldo Moro, la marcia dei 40000 di Torino, l’inizio del calo elettorale del PCI, e via dicendo.

In mezzo un’epoca forse irripetibile (per lo meno in tempi brevi), in cui movimenti vari hanno lottato, ottenuto diritti, rinvigorito temi come l’antifascismo, la centralità operaia, la difesa dei lavoratori e della Costituzione, la presa di coscienza di classe, denunciato la collusione tra mafie e DC, l’ipocrisia del regime culturale borghese e capitalista e, purtroppo, anche deciso di usare le armi per abbattere un regime reazionario, autoritario e repressivo. Un regime che permetteva ai suoi dipendenti (le forze di polizia) di sparare ad altezza d’uomo e uccidere per sedare quegli scalmanati, che chissà cosa avevano mai in testa, forse di fare la rivoluzione, forse di vivere in un mondo migliore…
“Tutti sapevano che lo Stato era colluso con le stragi di stato. Tutti sapevano che gran parte dei politici di governo erano corrotti, o facevano interessi particolari, fossero quindi collusi con Confindustria o con la mafia. Tutti sapevano, e qualcuno reagì prendendo in pugno le armi.”

Più o meno è questo l’assunto di partenza di De Luna, che riesce a riscostruire un decennio nella sua totalità, mettendo in evidenza le differenze di violenza tra destra e sinistra (stragi di massa le prime, omicidi isolati le seconde), senza ovviamente parteggiare per le seconde, ma semplicemente volendo spiegare bene tutto il contesto attorno al quale sono nati fenomeni come le Brigate Rosse e Prima Linea. Un contesto fatto di un regime che vedendosi stretto nella morsa di un PCI sempre più forte e di una serie di movimenti sociali sempre più influenti e radicati, ha saputo rispondere solo con la repressione, lo stragismo di stato, le manganellate e le pallottole. La certezza di una democrazia bloccata (dal fattore K) e la volontà di ottenere giustizia e verità hanno naturalmente portato certe frange dei movimenti di protesta alla violenza, non senza un dibattito aspro e incerto, da cui non è stata esente nemmeno Lotta Continua, oggetto di sguardo privilegiato da parte di De Luna. Oggi però queste storie non sono raccontate. Oggi gli anni ’70 sono semplicemente gli anni di piombo. La spirale di violenza di sinistra che ha avvolto soprattutto la seconda metà del decennio è stata artificialmente espansa a tutto il decennio, cancellando ogni riferimento all’eccezionale positività del primo decennio, in cui il conflitto e la lotta di classe avevano saputo far progredire lo siluppo socio-economico generale in maniera assolutamente non-violenta e pacifica, a dispetto delle stragi di stato create con l’obiettivo di far ricadere la colpa sui comunisti, quando invece è stato assodato dai tribunali che fossero state compiute dai fascisti e da reparti collusi dei servizi segreti.

Queste verità non le racconta nessuno, e oggi il revisionismo storico è ad uno stato avanzatissimo, secondo un progetto iniziato con la lode dei repubblichini di Salò (in un processo avviato nel 1996 dal presidente della Camera Luciano Violante, oggi tra i più illustri esponenti del PD che propongono una riforma condivisa della giustizia con Berlusconi). Si tenta di riscrivere la storia, per poi diffonderla tramite televisioni e discorsi istituzionali. L’unica nostra possibilità di memoria viene ancora una volta dai libri. E allora leggiamoli e ricordiamo i tanti compagni caduti per la libertà, la democrazia, l’antifascismo, e anche il comunismo. E ringraziamo storici come Giovanni De Luna per la loro azione culturale senza la quale saremmo inghiottiti da personaggi orwelliani come Violante.

mercoledì

L'umiliazione di Philip Roth. Einaudi 2010. 17,50 euro

Tutto è finito per Simon Axler, il protagonista del nuovo conturbante libro di Philip Roth. Simon, uno dei più grandi attori teatrali della sua generazione, ha superato i sessant'anni e ha perso la sua magia, il suo talento e la sua sicurezza. Quando sale sul palcoscenico si sente un pazzo e si vede un idiota. La sua fiducia nelle proprie capacità è evaporata; s'immagina che la gente rida di lui; non riesce più a fingere di essere qualcun altro. "E scomparso qualcosa di fondamentale". La moglie se n'è andata, il pubblico l'ha abbandonato, il suo agente non sa come convincerlo a tornare in scena. In questo atroce resoconto di un'inspiegabile e terrificante autodistruzione, emerge il contraltare di un insolito desiderio erotico, certo una consolazione in quella vita spogliata di tutto, ma tanto rischiosa e aberrante da frustrare ogni speranza di conforto e gratificazione per puntare dritto verso un finale ancora più cupo e rovinoso. In questo lungo viaggio verso la notte, raccontato da Roth con l'inimitabile urgenza, bravura e serietà di sempre, tutti i mezzi che usiamo per convincerci della nostra solidità, tutte le rappresentazioni che nella vita diamo di noi stessi - talento, amore, sesso, speranza, energia, reputazione - vengono messi a nudo.

a cura di Piero Valleise

L'arte di annaccarsi. Un viaggio in Sicilia. roberto Alajmo. Laterza. 16 euro

Annacare/annacarsi è in dialetto siciliano un verbo insidioso, difficilmente traducibile in italiano. Quel che più si avvicina è cullare/cullarsi, ma non è proprio la stessa cosa. L'arte di annacarsi prevede il muoversi il massimo per spostarsi il minimo. Una immagine che descrive bene lo spirito dell'isola e più ancora la disposizione d'animo dei siciliani tessuta di diffidenza. Ogni viaggio in Sicilia, anche quello intrapreso in questo libro, diventa una specie di danza immobile attorno alla geografia e alla filosofia, alla storia, al folklore e alla gastronomia, scoprendo che fra le diverse discipline esistono continui rimandi a una trama inestricabile. "Pur restando immobile, l'Isola si muove. Non è uno di quei posti dove si va a cercare la conferma delle proprie conoscenze. È invece un teatro dove le cose succedono da un momento all'altro. È un susseguirsi di scatti prolungati, pause per rifiatare e ancora fughe in avanti". Come l'Isola, Alajmo procede a zig-zag in un itinerario non lineare, senza vincoli di percorso né di tempo, da un capo all'altro, sulla base di pure suggestioni, guidato dalla bellezza, accompagnato da un lucido pessimismo. Come un atto d'amore che non si nasconde nessuna vergogna dell'oggetto amato: capita di innamorarsi di una canaglia. E anche se lo sai, che puoi farci?

a cura di Piero Valleise

giovedì

Presentazione del libro "Patire le beatitudini" di fratel MichaelDavide

Mercoledì 31 marzo presso la biblioteca regionale di Aosta presenteremo il libro "Patire le beatitudini" di Fratel MichaelDavide edito da edizioni la meridiana, 18 euro
L'autore è monaco benedettino del monastero di Germagno (VB), dal 1983. Dopo i primi anni di formazione monastica, ha conseguito il dottorato in Teologia Spirituale presso l'Università Gregoriana di Roma.
...."le beatitudini sono l'attestazione che la realtà, così come essa è , può diventare un luogo e un modo di felicità. Sono la sfida in base alla quale si può credere che non c'è nient'altro che possa rendere felici se non quello che si è e ciò che la vita ci permette di essere".....
...."le beatitudini sono la negazione assoluta di ogni spiritualità narcisistica e prometeica"...
Presenterà la profssa Manuela Lucianaz

lunedì

L’invenzione dell’economia-Serge Latouche (Bollati Boringhieri 2010)

a cura di Alessandro Pascale

Lo confesso subito: la lettura dell’ultimo testo di Latouche è stata un’opera alquanto impegnativa e per certi versi impervia. Pur essendo molto fresco di studi (filosofici et similia) è stato infatti assai arduo riuscire a stare dietro a tutti i sistemi di pensiero, le citazioni, i paroloni di cui è composta complessivamente l’opera. Non un testo facile quindi, né di scorrevole lettura. Piuttosto un manuale da utilizzare con estrema cautela, che meriterebbe una particolare attenzione per l’enorme quantità di contenuti che presenta al lettore.

Contenuti vecchi e nuovi, in quanto L’invenzione dell’economia altro non è che una raccolta di saggi scritti ieri e anche l’altro ieri, disposti in maniera un po’ dispersiva lungo una scaletta che lungi dal voler essere esauriente ed esaustiva appare per l’appunto una serie di frammenti, seppur dottissimi e accuratissimi. Nella mia confessione aperta non posso omettere che la serie dei saggi non è di interesse uniforme, bensì a scritti più intriganti e divulgativi (sia per tema che per linguaggio usato) se ne alternano altri talmente verbosi e (sic!) inerpicabili da rendere impervia qualsiasi scalata logica. Dovendo fare il punto si segnalano come particolarmente interessanti i saggi su “L’invenzione del lavoro nell’immaginario sociale”, “Mandeville, ovvero la svolta della filosofia occidentale”, “Il lusso ghigliottinato”, “L’autodistruzione dell’umanesimo liberale” e qualcosina de “L’antieconomico di Aristotele”. Oltre ovviamente alla conclusione, assai più attuale e “politica” per gli accenni alla contemporaneità.

Nel complesso però vorrei mettere in guardia il lettore che si aspetta una rappresentazione lineare e didattica della nascita (o dell’invenzione) dell’economia. Un’opera del genere, lo precisa bene anche l’autore, è probabilmente impensabile per le possibilità di un solo individuo. Occorrerebbe infatti un lavoro enciclopedico, dagli esiti incerti, difficilmente oggettivi e in definitiva di dubbio valore scientifico. E’ difficile infatti trovare una via d’uscita unanime ed obiettiva dalle analisi di Latouche, che dal canto suo non lesina sulle buone vecchie citazioni marxiste, lanciate qua e là come àncore di salvezza per i lettori naufraghi. E confesso che non posso evitare di trattenere un sorrisetto malizioso ogni volta che constato che come il buon vino le massime marxiane sembrano migliorare col tempo, restando più valide che mai.

L’atteggiamento complessivo (ed è senz’altro il più grande pregio dell’opera) di Latouche è però quello di smontare ogni certezza dal punto di vista del pensiero economico. Viene messo in rilievo come ogni concetto dato oggi per assodato non sia nient’altro che una precisa invenzione storica del pensiero umano. Avvolti nel calderone di suggestioni, autori sconosciuti e citazioni sapienti una certezza emerge facendosi largo e scolpendosi nel marmo: appare infatti chiara la relatività morale, culturale e filosofica di cui è imperniata ogni attività economica che ci circonda. E un libro che smonta certezze è senz’altro un libro che val la pena di esser letto.

Come piante tra i sassi-Mariolina Venezia (Einaudi 2009)

a cura di Alessandro Pascale

Mariolina Venezia era già emersa con il romanzo Mille anni che sto qui (2007) vincendo peraltro il premio Campiello. Proprio l’ultima sconosciuta quindi non è, perlomeno se conosciamo i ristretti circoli di letterati e intellettuali. Ciò che fa piacere è che Come piante tra i sassi conferma le capacità narrative di un’autrice che forse è arrivata al romanzo un po’ tardi (classe 1961 la Venezia, anche se fa peccato dire l’età di una mademoiselle) dopo una gavetta fatta anche di sceneggiature televisive. Il genere scelto è quello del giallo, o meglio del giudiziottesco (giusto per inventare un neologismo in omaggio al poliziottesco degli anni ’70): ossia la serie di indagini svolte dal sostituto procuratore di Matera Imma Tataranni nello splendido panorama giudiziario dell’Italia, terra di puttane, menefreghisti, politici faccendieri, corrotti, furbi e incompetenti. La Venezia in realtà usa il pretesto del giallo, con l’indagine tutta tesa a seguire gli sviluppi di una morte misteriosa, per lanciarsi in una rappresentazione ahimè assai ben realistica del nostro Belpaese, con tutti i suoi pregi e (soprattutto) difetti. Ma è anche un’occasione per riderci un po’ su, e lasciarsi andare a splendide pagine di umorismo sottile e raffinato, in cui si gioca su una serie di personaggi molto ben caratterizzati (al limite dello stereotipo lo confesso, limite per fortuna mai valicato), tra cui troneggia lei, la protagonista: Imma Tataranni,anni 43, alta un metro e uno sputo, capelli crespi e gusti improbabili: dorato, serpentato. E tacco 12. Una donna priva di fantasia e dritta come una scopa in perenne ricerca della giustizia e dell’onestà, senza mai riuscire a vincere battaglie perse in partenza. Un personaggio sconfitto, eppure moralmente vincente, e nonostante non sia mai riuscita a prendere un 8 di greco-latino al liceo per la mancanza di quell’arguzia e furbizia tipiche delle sue compagne più smaliziate (e ignoranti) Imma rappresenta quell’Italia lavoratrice e originale, che sfruttando al meglio le proprie migliori doti alla fine ce la fa, diventando l’indispensabile tassello per far funzionare ogni giorno un sistema sempre più allo scatafascio. La Venezia non lesina d’altronde sulle tematiche progressiste: piccoli spunti, bozzi qua e là emergono su temi scomodi come l’emigrazione, il razzismo, l’ecologia, il nucleare, l’assenteismo pubblico, la disorganizzazione amministrativo-giudiziaria e dulcis in fundo, la questione morale dei politici, che molto spesso con una telefonata bloccano importanti indagini (quelle che possono dare realmente fastidio) sul nascere. In mezzo a tutto ciò sta la vita privata di Imma, anch’essa specchio della nostra Italia: un matrimonio un po’ cotto e stracotto, qualche pensiero lussurioso di troppo sul giovane carabiniere compagno di indagini, una figlia dodicenne in piena nevrosi ormonale-adolescenziale e una madre rimbambita affidata ad una giravolta di badanti. Tutto ciò è Come piante tra i sassi, ed è la conferma che si può fare ottima letteratura con storie semplici, magari col semplice buon gusto di raccontare. Il piacere di leggere vien da sé.

domenica

Slow Economy-Federico Rampini (Mondadori 2009)

a cura di Alessandro Pascale

Il sottotitolo del libro di Rampini è “Tutto quello che noi occidentali possiamo imparare dall’Oriente”. Scorrendo le quasi duecento pagine di saggistica narrativizzata ci si rende conto che in realtà l’unica cosa che noi occidentali possiamo imparare dall’Oriente è l’umiltà. Umiltà che dovrebbe svegliarci un po’ dall’insolenza di essere i primi al mondo in ogni cosa. Soprattutto umiltà che dovrebbe scatenarci qualche domanda rivelatrice del tipo “ma siamo sicuri che stiamo conducendo le cose in maniera sensata? Non è che forse qualcuno da qualche parte del mondo sta facendo qualcosa meglio di noi?”

E queste domande non riguardano una materia specifica ma la totalità del sapere umano, e nello specifico le risposte alle principali tematiche e problematiche del periodo contemporaneo (crisi ambientale, questione energetica, scarsità di risorse, ecc.). In realtà la risposta portata avanti da Rampini è una non-risposta, come è normale debba essere per chiunque non sia il Messia rivelatore del sacro Verbo. E’ una non-risposta per il fatto che Rampini individua correttamente un problema a monte: l’incapacità dell’uomo occidentale di mettere più in discussione sé stesso, la propria cultura, il proprio sistema economico e soprattutto la presunzione di credere di non aver niente da imparare da altri popoli e culture. La prima risposta sarà quindi la ricerca di un atteggiamento più umile, portato alla curiosità e alla conoscenza, come è stato quello di un’Asia che per decenni ha mandato i suoi figli più promettenti a studiare nelle migliori università americane ed europee, carpendo quanto di meglio queste potevano offrire al proprio paese d’origine.

Pur con una prosa sciolta e una serie di aneddoti e tematiche accattivanti l’opera di Rampini appare però alquanto sterile e deludente sotto l’aspetto dei contenuti di fondo. I “veri” suggerimenti sulla possibilità di risolvere i macro-problemi sembrerebbero venire dalla ricerca di piccoli accorgimenti quotidiani da adottare da parte dell’individuo medio bianco caucasico. Trucchetti come ad esempio recuperare l’acqua usata sotto la doccia per lavare i pavimenti, farsi un orto e così via. Tutti metodi già ampiamente illustrati con dovizia di particolari da fautori della decrescita felice come Pallante. Rampini però rigetta il progetto decrescita, parlandone con una sorprendente approssimazione e condannandola senza appello nonostante l’evidente sensazione che il suo rigetto sia dovuto più all’ostacolo provocatorio del termine in sé che ai suoi effettivi contenuti. Rampini intende insomma decrescita come rifiuto della crescita economica, sostenendo le tesi dell’eco-capitalismo secondo cui la rivoluzione verde potrà avvenire solo grazie ad una ripresa economica mondiale. Si lancia contro il PIL, contro i funesti banchieri, mette in rilievo il diffuso benessere acquisito dai paesi asiatici che hanno abbracciato il libero mercato ma contemporaneamente ne evidenzia i profondi squilibri sociali, con pochi individui che si fanno villette milionarie e molti che invece vanno a recuperare la plastica di sacchetti finiti nella spazzatura.

Eppure nonostante tutto ciò non c’è una sola parola che sembri individuare il problema nella struttura intrinseca del capitalismo. Che non sia perfetto ovviamente non c’è dubbio, ma basterebbe fare appello all’ingresso di valori nuovi, che correggano virtuosamente il sistema economico, dandogli quell’anima e quei valori facenti parte dell’umanità, per risolvere le cose.

Un’ingenuità davvero sorprendente quella di Rampini, che sembra ignorare il fatto che un sistema basato sul profitto appare difficilmente regolabile da altro che non siano solide leggi emanate dalla politica. Dimentica Rampini che la compassione (più in generale la morale e la cultura) può sì guidare in certi casi il portafogli in maniera virtuosa, ma per fare ciò occorre che qualcosa la faccia nascere la compassione. Un miliardo di affamati nel mondo sono un dato che può certo provocare compassione, se il linguaggio riuscisse da solo a sprigionare l’incredibile sofferenza che esprime una semplice frase. Una violenza invisibile come quella perpetuata dal sistema capitalista non scatena compassione, né avrà la forza di rendere cosciente l’Occidente delle proprie colpe. D’altronde lo stesso Rampini parlando del Vietnam ricorda bene come la guerra non fu persa dagli Americani sul campo di battaglia, ma da una straordinaria serie di fotografie e reportages giornalistici in grado di rendere visibile la violenza di una guerra tremenda. Ma una guerra, si sa, rende ben identificabile il nemico, colui che ti spara contro. Nei rapporti di produzione invece si è arrivati al tragico esito per cui quando un imprenditore offre un lavoro malpagato da sfruttati ci si slancia a baciargli la mano per ricompensa… Forse oltre che imparare dall’Oriente sarebbe il caso di reimparare dal proprio stesso passato, più attuale che mai.

mercoledì

Il lamento del bradipo-Sam Savage (Einaudi 2009)

a cura di Alessandro Pascale

Essere professori di filosofia, poi meccanici e pescatori. Poi di colpo reinventarsi scrittori, portando a compimento un percorso di riscoperta interiore (dalle professioni mauali a quelle riflessive individuali) che ha portato al bestseller Firmino, un caso mondiale che nel 2006 arrivò a vendere perfino in Italia con le sue 400 mila copie.

Il lamento del bradipo è un degno seguito, un rinascimento spettacolare del romanzo espistolare, un genere in auge sul finire del 18° secolo, e ciònonostante lungi dall’essere anacronistico viene riportato a risultati sorprendenti con la decisione di puntare tutto su un registro umoristico-sardonico il cui protagonista è Andrew Whittaker, caporedattore (nonché redattore unico) della famosa (insomma) rivista letteraria locale Bolle. Scrittore a tempo perso, Whittaker deve districarsi tra difficoltà finanziarie continue a causa di una rivista mangiasoldi e della mancanza di un lavoro fisso retribuito. La sua unica fonte di reddito è la rendita derivante ogni mese da una serie di appartamenti in affitto ad inquilini apparentemente ingrati e incontentabili. Il degrado di questi ultimi seguirà la crescente instabilità psico-fisica di un personaggio intrigante e a tratti geniale, completamente incapace però di mantenere una qualsiasi relazione normale con altri individui, scelta dalla quale non è esente un egocentrismo leggermente elitario e saccente.

Una situazione complessiva favorita dalla crisi del rapporto coniugale (ormai defunto) e da una famiglia che lo ha sempre apertamente disprezzato, relegandolo a fratello e figlio di serie B.

Whittaker viene qui immortalato negli ultimi mesi di un declino iniziato in realtà da molto tempo prima. Un declino che lo vede strapazzare giovani scrittori dal talento dubbio, provarci spudoratamente con giovani poetesse che inviano foto avvenenti, lanciare mordaci invettive sotto false identità contro le riviste letterarie avversarie, e soprattutto lamentare la propria stessa condizione di vita, sempre più simile a quella di un bradipo.

E’ il lamento del bradipo per l’appunto, ossia una continua ricerca di una commiserazione altrui, con l’elenco dettagliato delle proprie piccole grandi disgrazie, ricordate con una solerzia che provoca nel lettore nient’altro che pateticità e disprezzo.

Il vero colpo di genio del romanzo non è però la creazione di un personaggio così ben definito nella sua geniale mediocrità, bensì l’idea di raccontarlo unicamente attraverso ogni lettera che si trova a scrivere nell’arco di quattro mesi, dal torrido luglio estivo all’ottobre che apre il momento del prossimo letargo invernale. Soltanto le lettere scritte da Andrew, sia chiaro, non le risposte che egli riceve, i cui contenuti emergono dalle stesse risposte che Whittaker si trova a scrivere. Trovarsi in successione le lettere in cui si ripetono sempre gli stessi episodi, descritti con crescente instabilità mentale determina un effetto per tre quarti tragico-comico e per un terzo grottesco, stampando sul lettore un sorrisetto compiaciuto per la tenacia con cui nonostante tutto il bradipo Andy sembra affrontare le difficoltà, cercando di risolverle con la forza della propria lucida narrativa epistolare. Un personaggio a modo suo romantico ed eroico, questo Andrew Whittaker: una voce alternativa che pur gravato da evidenti problemi psicologici e finanziari non rinuncia a far sentire la sua critica con ogni mezzo a sua disposizione. Il suo fallimento simboleggia l’incapacità dell’uomo contemporaneo medio di imporre la propria individualità in un sistema che ammette solo libertà di pensiero conformi ad un determinato ordine. Chi è troppo diverso non ha possibilità di scampo. E le piccole isole letterarie in stile Solaria restano un’utopia destinata al macero. Non è un caso che il protagonista tornerà nel finale a vivere soltanto dopo aver mandato al macero tutti i suoi scritti di una vita, lasciandosi alle spalle ogni velleità artistica e accettando con ciò di conformarsi al sistema. Sarà la liberazione da un peso enorme, il tuffo in un comodo oceano di mediocrità senza pretese. La tragica constatazione che questo non è un mondo per artisti e letterati.

Il lamento del bradipo è un libro eccezionale. E Sam Savage si conferma un mostro della letteratura conemporanea.