domenica

Slow Economy-Federico Rampini (Mondadori 2009)

a cura di Alessandro Pascale

Il sottotitolo del libro di Rampini è “Tutto quello che noi occidentali possiamo imparare dall’Oriente”. Scorrendo le quasi duecento pagine di saggistica narrativizzata ci si rende conto che in realtà l’unica cosa che noi occidentali possiamo imparare dall’Oriente è l’umiltà. Umiltà che dovrebbe svegliarci un po’ dall’insolenza di essere i primi al mondo in ogni cosa. Soprattutto umiltà che dovrebbe scatenarci qualche domanda rivelatrice del tipo “ma siamo sicuri che stiamo conducendo le cose in maniera sensata? Non è che forse qualcuno da qualche parte del mondo sta facendo qualcosa meglio di noi?”

E queste domande non riguardano una materia specifica ma la totalità del sapere umano, e nello specifico le risposte alle principali tematiche e problematiche del periodo contemporaneo (crisi ambientale, questione energetica, scarsità di risorse, ecc.). In realtà la risposta portata avanti da Rampini è una non-risposta, come è normale debba essere per chiunque non sia il Messia rivelatore del sacro Verbo. E’ una non-risposta per il fatto che Rampini individua correttamente un problema a monte: l’incapacità dell’uomo occidentale di mettere più in discussione sé stesso, la propria cultura, il proprio sistema economico e soprattutto la presunzione di credere di non aver niente da imparare da altri popoli e culture. La prima risposta sarà quindi la ricerca di un atteggiamento più umile, portato alla curiosità e alla conoscenza, come è stato quello di un’Asia che per decenni ha mandato i suoi figli più promettenti a studiare nelle migliori università americane ed europee, carpendo quanto di meglio queste potevano offrire al proprio paese d’origine.

Pur con una prosa sciolta e una serie di aneddoti e tematiche accattivanti l’opera di Rampini appare però alquanto sterile e deludente sotto l’aspetto dei contenuti di fondo. I “veri” suggerimenti sulla possibilità di risolvere i macro-problemi sembrerebbero venire dalla ricerca di piccoli accorgimenti quotidiani da adottare da parte dell’individuo medio bianco caucasico. Trucchetti come ad esempio recuperare l’acqua usata sotto la doccia per lavare i pavimenti, farsi un orto e così via. Tutti metodi già ampiamente illustrati con dovizia di particolari da fautori della decrescita felice come Pallante. Rampini però rigetta il progetto decrescita, parlandone con una sorprendente approssimazione e condannandola senza appello nonostante l’evidente sensazione che il suo rigetto sia dovuto più all’ostacolo provocatorio del termine in sé che ai suoi effettivi contenuti. Rampini intende insomma decrescita come rifiuto della crescita economica, sostenendo le tesi dell’eco-capitalismo secondo cui la rivoluzione verde potrà avvenire solo grazie ad una ripresa economica mondiale. Si lancia contro il PIL, contro i funesti banchieri, mette in rilievo il diffuso benessere acquisito dai paesi asiatici che hanno abbracciato il libero mercato ma contemporaneamente ne evidenzia i profondi squilibri sociali, con pochi individui che si fanno villette milionarie e molti che invece vanno a recuperare la plastica di sacchetti finiti nella spazzatura.

Eppure nonostante tutto ciò non c’è una sola parola che sembri individuare il problema nella struttura intrinseca del capitalismo. Che non sia perfetto ovviamente non c’è dubbio, ma basterebbe fare appello all’ingresso di valori nuovi, che correggano virtuosamente il sistema economico, dandogli quell’anima e quei valori facenti parte dell’umanità, per risolvere le cose.

Un’ingenuità davvero sorprendente quella di Rampini, che sembra ignorare il fatto che un sistema basato sul profitto appare difficilmente regolabile da altro che non siano solide leggi emanate dalla politica. Dimentica Rampini che la compassione (più in generale la morale e la cultura) può sì guidare in certi casi il portafogli in maniera virtuosa, ma per fare ciò occorre che qualcosa la faccia nascere la compassione. Un miliardo di affamati nel mondo sono un dato che può certo provocare compassione, se il linguaggio riuscisse da solo a sprigionare l’incredibile sofferenza che esprime una semplice frase. Una violenza invisibile come quella perpetuata dal sistema capitalista non scatena compassione, né avrà la forza di rendere cosciente l’Occidente delle proprie colpe. D’altronde lo stesso Rampini parlando del Vietnam ricorda bene come la guerra non fu persa dagli Americani sul campo di battaglia, ma da una straordinaria serie di fotografie e reportages giornalistici in grado di rendere visibile la violenza di una guerra tremenda. Ma una guerra, si sa, rende ben identificabile il nemico, colui che ti spara contro. Nei rapporti di produzione invece si è arrivati al tragico esito per cui quando un imprenditore offre un lavoro malpagato da sfruttati ci si slancia a baciargli la mano per ricompensa… Forse oltre che imparare dall’Oriente sarebbe il caso di reimparare dal proprio stesso passato, più attuale che mai.

mercoledì

Il lamento del bradipo-Sam Savage (Einaudi 2009)

a cura di Alessandro Pascale

Essere professori di filosofia, poi meccanici e pescatori. Poi di colpo reinventarsi scrittori, portando a compimento un percorso di riscoperta interiore (dalle professioni mauali a quelle riflessive individuali) che ha portato al bestseller Firmino, un caso mondiale che nel 2006 arrivò a vendere perfino in Italia con le sue 400 mila copie.

Il lamento del bradipo è un degno seguito, un rinascimento spettacolare del romanzo espistolare, un genere in auge sul finire del 18° secolo, e ciònonostante lungi dall’essere anacronistico viene riportato a risultati sorprendenti con la decisione di puntare tutto su un registro umoristico-sardonico il cui protagonista è Andrew Whittaker, caporedattore (nonché redattore unico) della famosa (insomma) rivista letteraria locale Bolle. Scrittore a tempo perso, Whittaker deve districarsi tra difficoltà finanziarie continue a causa di una rivista mangiasoldi e della mancanza di un lavoro fisso retribuito. La sua unica fonte di reddito è la rendita derivante ogni mese da una serie di appartamenti in affitto ad inquilini apparentemente ingrati e incontentabili. Il degrado di questi ultimi seguirà la crescente instabilità psico-fisica di un personaggio intrigante e a tratti geniale, completamente incapace però di mantenere una qualsiasi relazione normale con altri individui, scelta dalla quale non è esente un egocentrismo leggermente elitario e saccente.

Una situazione complessiva favorita dalla crisi del rapporto coniugale (ormai defunto) e da una famiglia che lo ha sempre apertamente disprezzato, relegandolo a fratello e figlio di serie B.

Whittaker viene qui immortalato negli ultimi mesi di un declino iniziato in realtà da molto tempo prima. Un declino che lo vede strapazzare giovani scrittori dal talento dubbio, provarci spudoratamente con giovani poetesse che inviano foto avvenenti, lanciare mordaci invettive sotto false identità contro le riviste letterarie avversarie, e soprattutto lamentare la propria stessa condizione di vita, sempre più simile a quella di un bradipo.

E’ il lamento del bradipo per l’appunto, ossia una continua ricerca di una commiserazione altrui, con l’elenco dettagliato delle proprie piccole grandi disgrazie, ricordate con una solerzia che provoca nel lettore nient’altro che pateticità e disprezzo.

Il vero colpo di genio del romanzo non è però la creazione di un personaggio così ben definito nella sua geniale mediocrità, bensì l’idea di raccontarlo unicamente attraverso ogni lettera che si trova a scrivere nell’arco di quattro mesi, dal torrido luglio estivo all’ottobre che apre il momento del prossimo letargo invernale. Soltanto le lettere scritte da Andrew, sia chiaro, non le risposte che egli riceve, i cui contenuti emergono dalle stesse risposte che Whittaker si trova a scrivere. Trovarsi in successione le lettere in cui si ripetono sempre gli stessi episodi, descritti con crescente instabilità mentale determina un effetto per tre quarti tragico-comico e per un terzo grottesco, stampando sul lettore un sorrisetto compiaciuto per la tenacia con cui nonostante tutto il bradipo Andy sembra affrontare le difficoltà, cercando di risolverle con la forza della propria lucida narrativa epistolare. Un personaggio a modo suo romantico ed eroico, questo Andrew Whittaker: una voce alternativa che pur gravato da evidenti problemi psicologici e finanziari non rinuncia a far sentire la sua critica con ogni mezzo a sua disposizione. Il suo fallimento simboleggia l’incapacità dell’uomo contemporaneo medio di imporre la propria individualità in un sistema che ammette solo libertà di pensiero conformi ad un determinato ordine. Chi è troppo diverso non ha possibilità di scampo. E le piccole isole letterarie in stile Solaria restano un’utopia destinata al macero. Non è un caso che il protagonista tornerà nel finale a vivere soltanto dopo aver mandato al macero tutti i suoi scritti di una vita, lasciandosi alle spalle ogni velleità artistica e accettando con ciò di conformarsi al sistema. Sarà la liberazione da un peso enorme, il tuffo in un comodo oceano di mediocrità senza pretese. La tragica constatazione che questo non è un mondo per artisti e letterati.

Il lamento del bradipo è un libro eccezionale. E Sam Savage si conferma un mostro della letteratura conemporanea.