martedì

Romano Luperini

     Oggi i nostri romanzieri scrivono (quasi tutti) come si parla al bar. Non c’è più nessuna ricerca letteraria specifica; rarissimi sono i casi di un’attenzione alla lingua. Il rigore dello stile non interessa più a nessuno. D’altronde nessuno scrive più “per il capolavoro”; tutti (o quasi) scrivono solo per vendere.

        A ciò si accompagna la messa fra parentesi del mondo. Mentre la letteratura americana e quella dei paesi emergenti ci mostrano una realtà densa di contraddizioni materiali, di conflitti sociali ed interetnici, di contrasti fra le generazioni, in Italia esiste solo l’ego. Il privato domina incontrastato. Nei romanzi che vanno per la maggiore (seppure per un mese o due), che vincono i maggiori premi nazionali e di cui parlano la stampa quotidiana e la televisione, non esiste neppure la società, che si restringe tutt’al più alla famiglia mononucleare, ai fratelli e a esangui figure genitoriali. Mentre nel cinema si parla di un ritorno alla realtà, il processo, che pure comincia a essere avvertibile anche in letteratura (almeno dopo Sandokan di Balestrini e Gomorra di Saviano), resta in campo narrativo molto circoscritto, e non mancano forzature che vanno piuttosto verso moduli di reality televisiva (e dunque verso la pseudorealtà). Bisognerebbe andare a cercare forse nel campo della editoria minore (meno condizionata dai parametri del best seller a ogni costo) per trovare alcuni esempi sia di scrittura impegnata sul registro linguistico e stilistico sia di confronto con la dimensione materiale della vita. Mi limito a un solo esempio, quello recente di Giacomo Annibaldis, autore di Casa popolare vista mare, pubblicato dalla Besa editrice (Lecce), in cui protagonista è un rione popolare, le generazioni si confrontano fra loro e lo stile è sempre molto sobrio, asciutto, rigoroso.

        I grandi editori sostengono che è questo che il pubblico vuole. E’ un argomento che mi ricorda il modo di operare di Berlusconi e dei suoi governi. Dapprima si crea un senso comune dominante, poi si dice che si fa ciò che la gente vuole. Dapprima si crea scientificamente la paura, poi si schiera l’esercito con un atto spettacolare.

        Ma è proprio vero che il pubblico vuole solo un linguaggio da bar e storie senza mondo e senza società? Non in modo così assoluto. E invoco qui la mia testimonianza personale. Ho appena pubblicato un romanzo breve, L’età estrema. Il libro è stato posto in un sito che raccoglie le visite e i commenti dei lettori. Nel giro di 30 giorni, e per di più nel mese di agosto, il libro aveva ricevuto 4000 visite e 15 recensioni, collocandosi subito dopo Le benevoleLa solitudine dei numeri primiL’eleganza del riccio. A questo punto, forse perché andava troppo bene, è stato soppresso da questo sito (la “democrazia di internet”!), e allora le recensioni dei lettori sono confluite su un altro. Ebbene, le ragioni di questo successo (minuscolo, ma non insignificante), indicate nelle recensioni inviate dai lettori comuni, stavano nello stile non banale che rivelerebbe una vera ricerca letteraria e nel fatto che la vicenda narrata farebbe riflettere i lettori sulla situazione del mondo e sul senso della nostra vita.

        Io credo che oggi in Italia vi sia una fascia di pubblico colto e sensibile – una fascia indubbiamente limitata, probabilmente oscillante intorno a 10.000-20.000 lettori – che si attendono qualcosa di più e di meglio di ciò che le grandi editrici selezionano e “costruiscono”. Questo pubblico esiste, ma è destinato a restare deluso. Le grandi casi editrici puntano alla cassetta e rimpinzano di estrogeni i loro prodotti. Il guaio è che finiscono per condizionare profondamente lo stesso canone. Probabilmente anche Gadda o Tozzi oggi sarebbero pubblicati solo da Besa, e respinti da Einaudi e Garzanti. E non li leggerebbe nessuno.

Nessun commento: