domenica

La morte del PCI-Guido Liguori (Manifestolibri 2009)

a cura di Alessandro Pascale

Guido Liguori ricostruisce con la dovuta puntigliosità di uno storico di professione la vicenda che ha portato alla tormentata fine del PCI, avvenuta dopo un lungo travaglio iniziato di fatto con la morte di Berlinguer e terminato nel 1991 con la nascita del PDS.

Liguori parte da lontano, da Gramsci, dalle origini di un partito comunista particolare, perché diverso dagli altri partiti ortodossi e filo-sovietici. La fortuna di avere Gramsci e dopo di lui dirigenti capaci come Togliatti e Berlinguer, in grado di costruire il “partito nuovo” con il radicamento di massa sul territorio, e successivamente in grado di staccarsi sempre più dall’Unione Sovietica fino al suo ripudio totale. Poi la morte di Berlinguer nel 1984 e l’inizio della crisi. L’incapacità di leggere le trasformazioni socio-economiche e la difficoltà di arrestare il declino elettorale rafforzano sempre più l’ala migliorista di destra del partito (guidata dall’attuale presidente della Repubblica Napolitano), vicina alla socialdemocrazia europea e alla ricerca di un rapporto con Craxi. L’immobilismo di Natta e il successivo approdo di Occhetto, che lentamente inizierà il processo di disgregazione di quello che era stato il più forte partito comunista d’occidente. Liguori, pur mantenendo una professionalità scientifica non lesina stoccate al segretario della “svolta”, reo di aver americanizzato la politica anche nel PCI, con una spettacolarizzazione ed un decisionismo molto più vicini al modo di fare politica craxiano piuttosto che a quello della tradizione del PCI.

L’autore dopo una cinquantina di pagina passate a “riassumere” le peculiarità storiche e culturali del PCI concentra l’attenzione sul periodo che parte dall’elezione di Occhetto, avvenuta nel maggio 1988, e termina nel XX° Congresso, che il 3 febbraio 1991 sanciva la fine del PCI. In mezzo un dibattito infuocato tra dirigenti, intellettuali, correnti, e iscritti (in calo drastico), che Liguori riscostruisce con grande sforzo e in maniera precisa e tecnica, andando a rispescare discorsi che riletti oggi lasciano sulla bocca un sorriso amaro, come quando D’Alema affermava l’indispensabilità di restare comunisti. Oppure quando Bassolino all’ultimo momento lanciava l’appello al mantenimento di una forza antagonista e anticapitalista. D’Alema, Bassolino, Turco, comunisti finiti nel PD, tra salti mortali non indifferenti…

Occhetto viene ritratto come una persona letteralmente ossessionata dall’idea di dover cambiare il nome del partito, in balìa di uno stato confusionario che lo porta un momento a smentire ogni possibilità di tale tipo, un momento dopo a lanciare la svolta della Bolognina. Emerge tra le pagine l’assurdo suicidio di un partito che si apre al cambiamento ad una società civile che in realtà non solo non accoglie gli inviti a partecipare alla formazione di un nuovo soggetto politico, ma porta alle estreme conseguenze quel disimpegno politico già fisiologicamente innestato nei primi anni ’80. Gli intellettuali però approvano, Scalfari in prima persona. Approvano e sono contenti per la nascita di un partito di sinistra finalmente libero da pregiudizi contro la società capitalista e su cui possono contare. Un partito che può andare al governo, anche se non si sa per portare più chissà quali istanze sociali ed economiche.

L’ossessione di Occhetto sembra lo specchio della società liquida descritta da Bauman: la perdita di identità comunista, necessitata dal bisogno di vendere meglio il proprio partito sul mercato, neanche fosse una merce esposta in un supermercato. La svendita di contenuti e analisi ancora valide per ottenere un’etichetta di legittimità di governo. La fine di un partito solido, dai forti contenuti ideologici, a scapito di un partito leggero, che ripudia Marx e la rivoluzione d’ottobre, preferendogli intellettuali liberali e la rivoluzione francese del 1789. Un partito che inizia ad abbracciare il capitalismo finendo di metterlo in discussione, tra lo stupore preoccupato perfino di un liberal-socialista come Bobbio. E poi c’è Ingrao, il vecchio leader della sinistra di partito, che guida il fronte del “No”, di quelli che non accettavano di svendere così il proprio patrimonio comunista, soprattutto in un momento storico (il triennio 1989-91, epoca che segna la fine del “socialismo reale”) che lascia presupporre la possibilità di superare la pregiudiziale anti-comunista. Soprattutto perché cambiare identità in quel momento avrebbe significato associare il PCI all’URSS. Legittimare un De Giovanni qualsiasi che accomunava Togliatti e Stalin senza pietà né un minimo di raziocinio storico.

Ingrao decise di “restare nel gorgo” per fare la fronda. Lui e gli altri “comunisti democratici” però non ebbero fortuna, e uscirono alla spicciolata da un partito scialbo come il PDS.

La conclusione è narrata da Liguori in maniera impietosa, con un affondo finale che rivela l’enorme errore politico portato avanti da Occhetto e dal suo staff, che invece di opporsi pienamente, causa forse rimembranze di quel centralismo democratico d’altri tempi, non seppe radunarsi collettivamente per contrastare un progetto folle: “alle prime elezioni politiche (1992) successive alla fine del PCI, il nuovo partito, il PDS, raggiungerà solo il 16,10%, contro il 26,58% ottenuto dal PCI nelle politiche del 1987 e il 27,58% delle europee del 1989. Rifondazione Comunista raccolse nel 1992 il 5,61%: la somma dei due partiti nati nel ’91 era drasticamente inferiore ai voti ottenuti dal Pci anche nei difficili anni ’80. Un’operazione a perdere.”

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