domenica

La morte del PCI-Guido Liguori (Manifestolibri 2009)

a cura di Alessandro Pascale

Guido Liguori ricostruisce con la dovuta puntigliosità di uno storico di professione la vicenda che ha portato alla tormentata fine del PCI, avvenuta dopo un lungo travaglio iniziato di fatto con la morte di Berlinguer e terminato nel 1991 con la nascita del PDS.

Liguori parte da lontano, da Gramsci, dalle origini di un partito comunista particolare, perché diverso dagli altri partiti ortodossi e filo-sovietici. La fortuna di avere Gramsci e dopo di lui dirigenti capaci come Togliatti e Berlinguer, in grado di costruire il “partito nuovo” con il radicamento di massa sul territorio, e successivamente in grado di staccarsi sempre più dall’Unione Sovietica fino al suo ripudio totale. Poi la morte di Berlinguer nel 1984 e l’inizio della crisi. L’incapacità di leggere le trasformazioni socio-economiche e la difficoltà di arrestare il declino elettorale rafforzano sempre più l’ala migliorista di destra del partito (guidata dall’attuale presidente della Repubblica Napolitano), vicina alla socialdemocrazia europea e alla ricerca di un rapporto con Craxi. L’immobilismo di Natta e il successivo approdo di Occhetto, che lentamente inizierà il processo di disgregazione di quello che era stato il più forte partito comunista d’occidente. Liguori, pur mantenendo una professionalità scientifica non lesina stoccate al segretario della “svolta”, reo di aver americanizzato la politica anche nel PCI, con una spettacolarizzazione ed un decisionismo molto più vicini al modo di fare politica craxiano piuttosto che a quello della tradizione del PCI.

L’autore dopo una cinquantina di pagina passate a “riassumere” le peculiarità storiche e culturali del PCI concentra l’attenzione sul periodo che parte dall’elezione di Occhetto, avvenuta nel maggio 1988, e termina nel XX° Congresso, che il 3 febbraio 1991 sanciva la fine del PCI. In mezzo un dibattito infuocato tra dirigenti, intellettuali, correnti, e iscritti (in calo drastico), che Liguori riscostruisce con grande sforzo e in maniera precisa e tecnica, andando a rispescare discorsi che riletti oggi lasciano sulla bocca un sorriso amaro, come quando D’Alema affermava l’indispensabilità di restare comunisti. Oppure quando Bassolino all’ultimo momento lanciava l’appello al mantenimento di una forza antagonista e anticapitalista. D’Alema, Bassolino, Turco, comunisti finiti nel PD, tra salti mortali non indifferenti…

Occhetto viene ritratto come una persona letteralmente ossessionata dall’idea di dover cambiare il nome del partito, in balìa di uno stato confusionario che lo porta un momento a smentire ogni possibilità di tale tipo, un momento dopo a lanciare la svolta della Bolognina. Emerge tra le pagine l’assurdo suicidio di un partito che si apre al cambiamento ad una società civile che in realtà non solo non accoglie gli inviti a partecipare alla formazione di un nuovo soggetto politico, ma porta alle estreme conseguenze quel disimpegno politico già fisiologicamente innestato nei primi anni ’80. Gli intellettuali però approvano, Scalfari in prima persona. Approvano e sono contenti per la nascita di un partito di sinistra finalmente libero da pregiudizi contro la società capitalista e su cui possono contare. Un partito che può andare al governo, anche se non si sa per portare più chissà quali istanze sociali ed economiche.

L’ossessione di Occhetto sembra lo specchio della società liquida descritta da Bauman: la perdita di identità comunista, necessitata dal bisogno di vendere meglio il proprio partito sul mercato, neanche fosse una merce esposta in un supermercato. La svendita di contenuti e analisi ancora valide per ottenere un’etichetta di legittimità di governo. La fine di un partito solido, dai forti contenuti ideologici, a scapito di un partito leggero, che ripudia Marx e la rivoluzione d’ottobre, preferendogli intellettuali liberali e la rivoluzione francese del 1789. Un partito che inizia ad abbracciare il capitalismo finendo di metterlo in discussione, tra lo stupore preoccupato perfino di un liberal-socialista come Bobbio. E poi c’è Ingrao, il vecchio leader della sinistra di partito, che guida il fronte del “No”, di quelli che non accettavano di svendere così il proprio patrimonio comunista, soprattutto in un momento storico (il triennio 1989-91, epoca che segna la fine del “socialismo reale”) che lascia presupporre la possibilità di superare la pregiudiziale anti-comunista. Soprattutto perché cambiare identità in quel momento avrebbe significato associare il PCI all’URSS. Legittimare un De Giovanni qualsiasi che accomunava Togliatti e Stalin senza pietà né un minimo di raziocinio storico.

Ingrao decise di “restare nel gorgo” per fare la fronda. Lui e gli altri “comunisti democratici” però non ebbero fortuna, e uscirono alla spicciolata da un partito scialbo come il PDS.

La conclusione è narrata da Liguori in maniera impietosa, con un affondo finale che rivela l’enorme errore politico portato avanti da Occhetto e dal suo staff, che invece di opporsi pienamente, causa forse rimembranze di quel centralismo democratico d’altri tempi, non seppe radunarsi collettivamente per contrastare un progetto folle: “alle prime elezioni politiche (1992) successive alla fine del PCI, il nuovo partito, il PDS, raggiungerà solo il 16,10%, contro il 26,58% ottenuto dal PCI nelle politiche del 1987 e il 27,58% delle europee del 1989. Rifondazione Comunista raccolse nel 1992 il 5,61%: la somma dei due partiti nati nel ’91 era drasticamente inferiore ai voti ottenuti dal Pci anche nei difficili anni ’80. Un’operazione a perdere.”

mercoledì

Altai-Wu-Ming (Einaudi 2009)

a cura di Alessandro Pascale

Altai è un romanzo intrigante. Intrigante e ben scritto. Ma sulle capacità tecniche del collettivo Wu Ming non avevamo dubbi, visti i trascorsi fatti di successi anche clamorosi come nel caso di Q (1999). L’intrigante è allora forse da ricercare per le caratteristiche del cosiddetto New Italian Epic con cui i Wu Ming hanno inteso lanciare e ufficializzare un nuovo tipo di narrativa fondata in particolare sul romanzo storico.

Altai segue questi canoni, e narra di un importante membro dei servizi segreti veneziani (siamo nel 1569) che viene incastrato e costretto a fuggire, causa della scoperta di una sua nascosta identità ebraica. Troverà rifugio presso lo storico nemico Yossef Nasi, nobile ebreo al servizio del Sultano Selim II, personaggio ambizioso che nutre un sogno: diventare il re di un luogo aperto a tutti i perseguitati, siano essi ebrei o meno. Nel frattempo il sior De Zante recupererà la sua identità ebraica e con convinzione tornerà ad essere Manuel Cardoso, mettendosi al completo servizio dell’Impero Ottomano contro la vecchia patria Venezia.

Scoprendo per di più che i tanto temuti musulmani sono di fatto molto più cosmopoliti e tolleranti rispetto all’Occidente Cristiano. Altai è un romanzo di intrighi amorosi, battaglie, complotti di palazzo, sangue, ritratti eroici ma umani e splendide descrizioni cromatiche e dialoghi affabili alla portata di tutti.

E’ una storia che parla di sogni, di incubi e di disastrose cadute nel realismo tranchant in grado di far morire il cuore di un uomo. E’ una storia di conversioni e di potere, di alto potere. Ma nonostante l’ottica “dall’alto” e per certi versi molto “politico-istituzionale” degli eventi Altai riesce a descrivere con realismo la psicologia di un manipolo di personaggi a tutto tondo, sia tra i ceti alti che tra quelli più bassi, cogliendo particolari realistici estremamente raffinati.

E’ un romanzo politico, sia per le logiche religiose esplicitamente in primo piano (non sorprende che ciò arrivi in un momento in cui l’Italia si scopre sconvolta di compiacere le pratiche razziste della Lega Nord), sia per i rimandi filosofici che affiorano più lentamente e sottotraccia: la smentita del fatto che il fine giustifichi i mezzi (come avrebbe detto Machiavelli) a discapito di una massima che sancisce come siano in realtà i mezzi a giustificare il fine (massima del “vecchio saggio” Ismail nel libro, di Albert Camus nella realtà).

A ricordare che le utopie si possono costruire, ma devono avere un retroterra concreto e solido. E che mai bisogna sacrificare i propri ideali per la costruzione di un ideale più grande. Decisamente tutte indicazioni politiche molto chiare…

domenica

Tutta un’altra musica-Nick Hornby (Guanda 2009)
a cura di Alessandro Pascale
Nick Hornby è cotto? Certo leggere Tutta un’altra musica non è entusiasmante e sorprendente come fu a suo tempo quel piccolo gioiello di Alta fedeltà, ma soprattutto c’è un’impressione che emerge ben nitida, soprattutto in riferimento al romanzo Un’eroe alternativo di Tim Thornton, uscito lo stesso anno: Hornby è scontato. Per qualcuno potrebbe essere anche un pregio questo, quasi una certezza che l’autore continui a sfornare prodotti di ottima qualità che giocano sul quadrato lui-lei-l’altro/a-musica. Perché, bisogna ammetterlo, la qualità della scrittura e dello stile è senz’altro sempre molto alta. Sul fatto che Hornby sappia scrivere non ci sono dubbi insomma, così come sappiamo che sa svolgere il suo mestiere, soprattutto in considerazione della sua abilità nel tessere i fili di trame che inevitabilmente appassionano e intrigano. E allora dov’è la scontatezza? Nel fatto che Hornby sembri sempre più un meccanismo ben oliato di un’industria cultural-narrativa assai poco dinamica, brava a riproporre sempre lo stesso prodotto (pur con le dovute sfumature ovviamente) al fine di consolare il lettore abitudinario e “fan” dell’autore.
Molto mestiere insomma, ma poca voglia di mettersi in gioco, poca passione e inventiva “vera” nello scrittore inglese, sempre più adagiato sugli allori di una carriera tra le più famose e commercialmente influenti dell’ultimo ventennio.
Eppure confrontando Tutta un’altra musica con L’eroe alternativo viene fuori un confronto impietoso, tanto è derivativo, scontato e un po’ inconcludente il primo, tanto è brioso, giovanile e fresco il secondo. Entrambi narrano di fatto la stessa storia, quella di un fan ossessionato dal proprio mito musicale per cui prova una passione quasi morbosa che impedisce di vivere una vita normale. Ma mentre nel primo caso c’è di mezzo una donna ormai sul viale del tramonto, con le conseguenti riflessioni sterili sui rapporti di coppia, dall’altra c’è una descrittività accentuata in grado di tirar fuori le trovate più affascinanti. Non staremo qui a parlare ulteriormente di L’eroe alternativo in quanto non è questa la sede opportuna, ma di quanto nonostante Hornby riesca tutto sommato a realizzare un romanzo intrigante, e a tratti anche avvincente, perda inesorabilmente il confronto con il collega britannico. Scottato senz’altro dalla genialità del romanzo altrui ma soprattutto dalla mancanza di contenuti che si installa su una forma altrimenti ottima. Davvero non si poteva pensare niente di meglio di una rockstar afflitta da mille problemi di famiglia e numerosi figli? Davvero si doveva buttare lì un finale così “non-finito”? Già me li vedo i proclami di Nick che si rifà all’indeterminatezza dell’essere umano, alla conseguente impossibilità di risolvere problemi tanto delicati come quelli sentimentali. Oppure orgoglioso di essersi rifiutato di scrivere uno scontatissimo happy ending tra baci e lenzuole indurite dal seme della vita. Ma a quale prezzo? Al prezzo di un’opera probabilmente terminata in maniera grezza perché troppo lunga, irresoluta, indefinita e infine azzoppata. Ma forse è solo un’impressione mia, forse sto esagerando. Anche perché gli spunti divertenti e piacevoli Hornby riesce ad accumularli in buona quantità, e forse le tante critiche sono dovute al fatto che ci aspettavamo un colpo di genio in più da uno che negli anni si è fatto amare per ovvi motivi. In ogni caso di sicuro Tutta un’altra musica non entrerà nella mia top five letteraria dell’anno. Tiè!
L’eroe alternativo-Tim Thornton (ISBN 2009)
a cura di Alessandro Pascale
Quello che ha realizzato Tim Thornton è qualcosa di sorprendente: creare dal nulla un gruppo musicale, descrivendolo in ogni suo dettaglio, discografia, testi delle canzoni, biografia, composizione dei membri, centralità del leader e suo carattere comprendente vari vezzi, difetti, amicizie e quant’altro. Il gruppo raccontato è quello dei Thieving Magpies, e il suo leader il bizzoso e sorprendente Alan Webster. Tutto inventato fin qui, frutto della fervida mente di uno scrittore sagace e creativo. Poi il colpo di genio: calare l’invenzione Thieving Magpies nel panorama musicale inglese tra fine anni ’80 e inizio ’90, buttandoli a capofitto nel circuito alternative (o indie, a seconda dei punti di vista) in un circuito fatto di festival vari (Reading, Glanstonbury), band più o meno affermate e note (Stone Roses, My Bloody Valentine, Boo Radleys, Carter USM, ecc.) e soprattutto fan veri e reali, riprodotti con una verosimiglianza sorprendente.
Clive Beresford è uno di questi: fan sfegatato dei Thieving Magpies assieme all’amico per la pelle Alan Potter, a differenza di quest’ultimo non è però riuscito ad uscire dal giro del circuito fanzinaro e della musica alternative, e nonostante la sua band del cuore si sia sciolta ormai da più di una decade è convinto che per mettere ordine nella sua vita, per molti versi ancora immatura e precaria, debba riuscire a mettere in luce un evento fondamentale della sua vita: il vero motivo della fine inattesa dei Thieving Magpies.
L’occasione di arrivare alla realtà e di compiere quel processo di formazione che finora ha mancato gli capiterà davanti quando scoprirà che Alan Webster, il suo vecchio idolo ormai dimenticato da tutti, si è trasferito proprio nel quartiere accanto al suo. Avvicinarlo e conoscerlo però non sarà un’operazione del tutto semplice e spontanea…
Nonostante vi sia un percorso di maturazione personale L’eroe alternativo non è un romanzo in stile Nick Hornby (come si diverte a dire la stessa voce narrante escludendo ogni possibile intreccio amoroso a tediare il lettore) nonostante alcune linee di fondo siano molto simili, come l’onnipresenza quasi ossessiva della musica, o la sensazione che in fin dei conti il fanciullino che è dentro ognuno di noi rimanga ben vivo perfino nel finale (pensate alla stessa sensazione emersa dai protagonisti di Alta fedeltà e Un ragazzo). Thornton è più sfumato e vivace di Hornby, di cui però mantiene quella freschezza artistica e quella passione musicale che solo a tratti traspare invece nelle opere di Jonathan Coe, accostabili all’Eroe alternativo solo in parte (mancano rispetto a Coe pagine drammatiche e tendenti ad un certo artistico languore) più per la capacità narrativa sorprendentemente fluida e spigliata.
Chi conosca almeno la metà dei riferimenti musicali fatti da Thornton godrà particolarmente della lettura del testo, ma l’opera è senz’altro godibile da chiunque, anche dall’individuo più sprovvisto musicalmente (il quale anzi potrebbe essere molto incuriosito ed essere preso dalla foga di approfondire sul meraviglioso mondo dell’indie-pop 80s).
Questo perché L’eroe alternativo è un libro “punk-pop” prima che essere un libro musicale. Un libro alternativo ma popolare, trasgressivo ma fino ad un certo punto, seguendo quelle linee di fondo delimitate da una società che accetta il “diverso” e il “ribelle” ma solo fino ad un certo punto (qualche pasticca ogni tanto, qualche tic e passione degenerata ok, niente di grave, perdi il lavoro ma non la faccia). Un’opera fatta di dialoghi e situazioni da gioventù degenerata, per certi versi ideale per la generazione attuale di 30-40enni che non si sono arresi all’idea di crescere del tutto ed eliminare ogni loro mania della fanciullezza (e sembra che in giro ce ne siano ancora tanti). La prosa sciolta ed i gustosi eventi che vanno a susseguirsi permettono quindi di catturare chiunque sia ancora dotato di quella minima scintilla data dal ricordo della propria gioventù. E alla fine tutti saranno presi dall’interrogativo: perché i Thieving Magpies si sono sciolti?
La Fortuna degli Zingari-Il’Ja Mitrofanov (2009 ISBN)
a cura di Alessandro Pascale

«Gli esseri umani sono più cattivi dei cani. Il cane morde, ma l’uomo ti sbrana vivo»
A parlare è la protagonista del romanzo, Sabina il suo nome. Una zingara. Una zingara bella ma sfortunata. E se la vita di uno zingaro è già difficile di per sé, dovendo affrontare giudizi e pregiudizi assai pesanti e infimi, quella di una donna zingara, bella, sfortunata e che decide di uscire dal “branco” lo diventa ancora di più. Diventa una caduta libera in precipizio, priva di qualsiasi paracadute di salvataggio in una società (il socialismo reale dell’URSS) che nonostante si professasse il manifesto della solidarietà e del bene comune risultasse di fatto un nido ideale di per la corruzione, la violenza, il degrado culturale e sociale. La fortuna degli zingari è quindi un libro sugli ultimi, quelli che davvero più in basso di così non possono stare, discriminati e frustati perfino da chi le frustate le prende da tutti.
L’URSS che Mitrofanov rappresenta è quella della periferia più estrema, quella della Bessarabia, regione danubiana al confine con la Romania, la cui capitale “reale” è un paesino di nome Achillea, assai diversa dalla lontana Mosca. La perifericità non è solo geografica ma anche narrativa. La scelta che si assume è infatti quella di vedere il mondo con gli occhi di Sabina, dapprima intellingente bambina cui viene portato via il padre, poi donna matura che trova la ragione della propria vita in Bògdan, pittore dal passato oscuro e afflitto da un sempre più esistenziale mal de vivre che lo condurrà alla pazzia.
La vita come un cerchio quindi, che si apre e chiude con disgrazie. In mezzo poca felicità e tanta cattiveria, cui la protagonista contribuisce ad alimentare in una lotta per la sopravvivenza. Così sono da vedere i furti cui è costretta a ricorrere. Così si spiega anche la frase iniziale, manifesto dell’anti-umanità, in cui i soggetti positivi sono pochissimi, compaiono di sfuggita, assai di rado, e non riescono a compiere azioni decisive per la salvezza degli individui.
Mitrofanov rappresenta la società sovietica come l’esatto contrario di come la propaganda di regime vorrebbe che fosse: nonostante la teorica abolizione delle classe e di concetti come individualismo e profitto le azioni della gran parte dei personaggi sembrano essere motivati da una cosa sola: i soldi, qui ridenominati dagli zingari con splendido effetto retorico dapprima “gli stalin” poi “i chruscev”.
La carica critica è spietata e raggiunge livelli di desolazione e violenza assoluti, assai distanti dalla rappresentazione sardonica e grottesca di un altro grande autore sovietico dissidente come Bulgakov. La spigliatezza e l’estremo realismo proletario della prosa rendono lo stile di Mitrofanov assai più prossimo di quella che doveva essere la società sovietica: socialista. L’intento politico di condanna del regime della sua corruzione imperante fa seguito alla critica delle iconografie, delle propagande totalitarie irreali, della scarsità di generi alimentari, del sistema sanitario e della mancanza di libertà di pensiero. Critica che avviene dal basso, facendo vedere nell’immediato le modalità e lo stile di vita della società sovietica, specie per gli strati più umili, perennemente in lotta tra loro. In tutto questo scenario l’amore che si fa largo in Sabina diventa un evento davvero unico, un motivo per cui dedicare tutta la propria vita. C’è in fondo un senso semplice ma profondo nell’opera di Mitrofanov. Chiudiamo ricordando che il libro è la seconda parte di una trilogia iniziata con Il testimone (ISBN 2007) e che si chiuderà con La fontana di Odessa (ISBN 2010).

sabato

Il Nemico - Emanuele Tonon (ISBN 2009)
a cura di Alessandro Pascale
"Un romanzo eretico, disturbante e maledetto Tra vita quotidiana e invettiva spirituale, uno spaccato struggente e indimenticabile del Nordest italiano profondo"
Rimasto piuttosto sconvolto per la lettura de Il Nemico e dovendone scrivere qualche riga di commento non ho potuto astenermi dall’andare a pescare per il web un po’ di impressioni e recensioni più o meno articolate. In questa ricerca ho trovato un’impressione che nella sua concisione più di altri mi ha fatto riflettere. Un lettore commentava il libro semplicemente così: “la cognizione del dolore”.
Il richiamo all’opera magistrale di Gadda mi ha fatto subito pensare alle profonde similarità e differenze che le due opere hanno. Il dolore soprattutto. Il Nemico è un romanzo che parla di dolore, tanto dolore. Un dolore veramente struggente e tragico, espresso con foga e rabbia, nonché con una precisa coscienza su chi sia il vero nemico, sia in terra che in cielo. Si è descritto infatti questo romanzo come tendezialmente antireligioso o filosofico ma ciò non è del tutto vero, anzi lo è solo in minima parte.
Se è vero infatti che la negazione di un Assoluto positivo è totale non altrettanto vero è che si scada in un bieco materialismo neorealista. Piuttosto si rimane sospesi in un limbo di crudezza e individualistico dolore da cui non si riesce praticamente a uscire se non attraverso una prosa ai limiti della pornografia. Arriviamo qui ad altri due aspetti che accomunano le opere di Gadda e Tonon: la radicale eterogeneità del linguaggio e dello stile, oltre al carattere di rottura completa con l’ambiente intellettuale dominante.
La cognizione del dolore era un romanzo difficile, per certi versi ancora acerbo (in parte per l’incompiutezza dovuta alla morte dell’autore, in parte per una precisa scelta attitudinale) e in definitiva un tuffo nella psicologia più malsana della borghesia media d’epoca fascista. Un’opera di rottura completa quella di Gadda, tanto che gli venne attribuito da qualche critico una certa rilevanza neanche troppo implicitamente politica, sia per la trama che per la sua totalità (pensiamo a cosa volesse dire creare un protagonista borghese disturbato mentalmente o scrivere larghi tratti in dialetto nell’Italia romanocentrica di fine anni ’30).
Tonon è anch’esso radicale e rivoluzionario, nel suo piccolo: le cento pagine del suo romanzo sono divise perfettamente in due parti. La prima parte è un vero e proprio grido di rabbiosa denuncia (di Antonioni-ana memoria verrebbe da dire dando uno sguardo al cinema) per la condizione della classe operaia del civilizzato ed avanzato Nord-Est: quello che oggi è il feudo della Lega, quello che per trovare la Sinistra bisogna andarla a cercarla col lumicino.
Tonon, teologo-operaio, rilancia una protesta che sembrava ormai morta, e lo fa con una prosa talmente cruda e disperata da diventare sconvolgente. Il motivo conduttore vincente diventa l’associazione tra le disgrazie causate dalla fabbrica (e dai padroni, non imprenditori, padroni!!!) e la morte prematura del padre, conclusione ineluttabile di una lunga agonia dovuta al cancro. Una storia come tante, troppe, purtroppo, ma che diventa linfa per il protagonista, incapace di assorbire il lutto e di andare avanti, ricominciando a vivere normalmente. Ne escono delle pagine commoventi e lacrimevoli per l’alto tasso di immedesimazione con un protagonista sconfitto in ogni ambito della sua vita, vero e proprio anti-eroe.
La seconda parte del romanzo si fa ancora più ispida e l’atmosfera più grottesca, l’aria rarefatta ed evanescente, il flusso interiore di pensieri portato alle estreme conseguenze. Ruotando attorno al motivo conduttore di una coppia spentasi sessualmente e vitalisticamente alla notizia di non potere avere figli, Tonon costruisce un impianto ancora più esplicitamente anti-borghese, stavolta facendo leva su una descrizione certosina di ogni tipo di depravazione sessuale e fisica, a cui non può esserci altro esito che quello dell’esaltazione della morte in contrapposizione a quel Dio cattolico di cui ormai è definitivamente accertata non l’indifferenza, ma la completa assenza. Pagine in cui la moralità scompare, e per questo terribilmente difficili da reggere perfino per un lettore tendenzialmente progressista e colto.
In definitiva è un pugno nello stomaco Il Nemico, romanzo difficile ma affascinante, di spirito operaio ma profondamente intelletualistico e psicologico. Soprattutto un’opera che non ama le mezze misure, né ha timore di spiattellare tutte le verità scomode che troppo spesso scrittori e lettori borghesi tendono a mettere in disparte nel loro falso progressismo. Tuttavia se c’è una cosa che ci ha insegnato Conrad in Cuore di tenebra è questa: l’orrore va visto fino in fondo per cogliere l’essenza della verità. E questo è esattamente ciò che fa Tonon, e come ha fatto a suo tempo Gadda.

domenica

La Grande Baldoria-Seth Freedman (2009, ISBN)
a cura di Alessandro Pascale
La Grande Baldoria è un incredibile affresco del capitalismo finanziario qui incarnato dal Miglio Quadrato (una dei nomignoli più ricorrenti assieme a quello di "City" per evocare l'epicentro borsistico di Londra), specchio di una società e di una mentalità che con la globalizzazione sembrano ormai invasivi a livello mondiale.
Attraverso una prosa sciolta, fresca e giovane Freedman rievoca i suoi trascorsi da broker e raccoglie un'enorme quantità di materiale documentario catturando accattivanti interviste ai protagonisti della City.
Introducendoci ai termini tecnici (broker, dealer, headge fund, DCO, Subprime, ecc.) in maniera vivace e colorita Freedman cattura una serie di istantanee per larghi tratti impietose, dipingendo una classe dirigente completamente fuori dalla realtà nonchè priva della benchè minima moralità. Nient'altro che un ammasso di esseri poco meno che automatici il cui unico fine è far soldi per fare altri soldi, con modalità che lo stesso autore accomuna in maniera pericolosa al gioco d'azzardo e ad una mentalità al limite della schizofrenia collettiva.
la cosa sorprendente è che Freedman ottiene tutto ciò con un linguaggio semplice e diretto, sempre alla portata di un lettore tendenzialmente ignorante e avulso da nozioni economiche e finanziarie.
Altro dato interessante è il carattere essenzialmente descrittivo della narrazione, quasi a sfondo documentario., lasciando al lettore il compito di formulare un giudizio complessivo sulle varie vicende. L'autore si astiene infatti dal condannare il comportamento dei suoi ex colleghi, anzi tende a difenderli, come una categoria che lungi dall'essere un'accozzaglia di banditi e truffatori appare nient'altro che un riflesso estremo di una società e del suo sistema di valori. Sono questi, ed altri attori ipocriti (duri gli attacchi verso Gordon Brown e la mentalità progressista laburista e democratica) ad essere i veri protagonisti di fondo della crisi finanziaria del 2008. Una crisi che affonda quindi le sue radici nei presupposti di un sistema malato all'origine, non nelle sue propaggini più macabramente estetiche (il settore finanziario).
Quasi in maniera inconsapevole Seth Freedman traccia di fatto un atto d'accusa enorme verso il capitalismo e il liberismo sfrenato, intesi soprattutto come sistemi incapaci di garantire un'adeguato livello di vita psicofisica all'individuo medio, facendolo invece entrare in una spirale in cui ciò che conta viene ad essere esclusivamente il profitto.
A proposito del libro di Alberto Burgio "Senza democrazia - un'analisi della crisi"
Derive Approdi

“Piuttosto che azzardare previsioni, in questo caso è importante riconoscere i dati di fatto”. Alberto Burgio invita a osservare questo principio cautelativo nel capitolo conclusivo del suo recente Senza democrazia. Un’analisi della crisi (Derive Approdi, Roma 2009) e lo fa riferendosi ad una questione specifica: l’esito del “passaggio di fase” prodotto dalla crisi in atto (segnatamente in relazione al ruolo degli Usa, che oggi appare indebolito dalla crisi stessa e insidiato da nuove ed emergenti potenze globali). Su tale questione torneremo tra poco. Qui interessa annotare – come primo approccio al testo suddetto – che tale propensione per una descrizione empiricamente documentata pervade in realtà tutta la trattazione, la quale si presenta appunto minuziosamente supportata dalla rilevazione di “dati di fatto”. Tra questi, sono ovviamente preponderanti i dati economici. Ma attenzione, non si tratta di un libro di economia (né, com’è noto, chi lo ha scritto fa di mestiere l’economista). Direi che è – né più né meno – un libro di storia assai istruttivo, da far leggere per far capire il nostro tempo: precisamente, lo sfondo storico dell’attuale crisi. Tuttavia, per andare al cuore dell’ispirazione, va anche detto che si tratta di un libro scritto da un intellettuale comunista, per il quale non a caso continua ad avere un’importanza cruciale l’indagine della totalità sociale capitalistica e delle sue strutturali contraddizioni. E’ qui che troviamo la chiave di lettura dei dati. In effetti, Burgio completa la sua opera nel vivo della crisi (la data di edizione è aprile 2009), quando l’altalena delle notizie e delle previsioni è in frenetico movimento: difficile, per chi scrive in queste condizioni, a ridosso di un evento in pieno svolgimento, chiudere il cerchio dei ragionamenti. Se questo testo vi riesce, è perché colloca l’analisi alla giusta profondità, dilatando l’apertura del tempo storico e interpretando questa crisi come un evento che arriva da lontano, prodotto dalle tendenze di fondo della società capitalistica. La crisi in cui siamo a tutt’oggi immersi, insomma, non nasce come un fungo, a seguito di qualche errore (seppur significativo) di politica economica o perché nei luoghi che contano sono saltate alcune regole di comportamento virtuoso. Né dunque, per contenerla e scongiurare il suo riprodursi, basta semplicemente ripristinare un codice etico capace di tenere a bada l’avidità (greed) degli operatori economici. Come è specificato sin dalle prime pagine del libro, essa affonda le sue radici nel “secolo lungo”, nella pancia di un ‘900 che non è un “secolo breve”: che dunque non inizia nel 1915/18, con la Prima guerra mondiale e la Rivoluzione d’Ottobre, per finire col biennio 1989/91 e con la caduta del Muro di Berlino (secondo una fortunata formula, che peraltro è stata successivamente corretta dal suo stesso autore, Eric J. E. Hobsbawm). Sarebbe infatti impossibile dar conto di quella prima guerra mondiale, prescindendo dalle sue cause: “(…) i conflitti interimperialistici divampati negli ultimi trent’anni dell’Ottocento e la Grande Depressione che si intrecciò a essi tra il 1873 e il ‘96”; cause che “restano operanti anche nel dopoguerra, conducendo alla Grande crisi degli anni Trenta e al secondo conflitto mondiale”. Sarebbe parimenti inconcepibile pretendere di cogliere il significato degli avvenimenti prodottisi tra il 1989 e il 1991, astraendo dai loro effetti: “l’unificazione mondiale dei mercati”, con “l’irruzione del gigantesco esercito industriale di riserva dei Paesi in via di sviluppo”, “l’unificazione monetaria europea” e, soprattutto, “lo sfondamento capitalistico sul terreno dei rapporti di lavoro”. La descrizione dei fatti e le connesse periodizzazioni rimarrebbero appese al vuoto se non seguissero il filo della lotta di classe e dei rapporti di forza tra le classi, se non individuassero in quel decisivo snodo epocale l’estinguersi della “grande paura del comunismo” e il conseguente scatenarsi della “furiosa reazione” del capitale. E’ qui che il modo di produzione vigente viene modellando un nuovo assetto sociale: la trasformazione della società in un “grande mercato dominato dalle multinazionali” e la costruzione di “una vera società di massa, nella quale le élites comandano a proprio talento”.- In questo largo contesto storico vanno rintracciate, più specificatamente, le linee di tendenza che conducono alla crisi odierna: ed è lungo l’asse di una tale ricerca che Burgio indica gli anni Settanta come un decennio di importanza essenziale: “La realtà odierna nasce negli anni Settanta”. Già in quegli anni, infatti, spinto dall’emergere delle contraddizioni strutturali che avevano capovolto la tendenza progressiva della fase “aurea” postbellica, l’establishment dell’Occidente capitalistico - a partire dal suo centro propulsore, gli Stati Uniti - preparava la svolta e poneva le premesse della sua rivincita. Dopo il 1945, sulle macerie della secondo conflitto mondiale, il capitalismo aveva costruito la sua ripresa: un’ “età dell’oro” durata trent’anni, fino agli anni ’70. Attorno alla produzione fordista e sulla base del compromesso stabilito tra big business, big government e big unions, erano cresciute occupazione e spesa pubblica, i redditi da lavoro avevano conquistato quote di Pil (questo stesso in consistente crescita), seguendo la scia dell’aumento della produttività. L’emancipazione sul piano della democrazia e dei diritti sociali e civili aveva accompagnato in un sincronico processo ascendente la redistribuzione di reddito attuata dalle politiche keynesiane e lo sviluppo del welfare universalistico. Non va omesso il fatto che tutto ciò avveniva su uno scenario internazionale condizionato dalla presenza dell’Unione Sovietica: “A dispetto di tutti i suoi limiti” - annota Burgio - quest’ultima “costituì per circa settant’anni (…) una sfida e un riferimento fondamentale, non soltanto per la sinistra intellettuale, politica e sindacale di tutto il mondo, ma anche per i governi e le classi dirigenti dei Paesi capitalistici”, oltre che “la dimostrazione della concreta possibilità della transizione a un’altra forma sociale”. Per chi avesse scambiato la realtà strutturalmente contraddittoria della produzione capitalistica con il sogno illuministico di un lineare e indefinito progresso umano, gli anni ’70 hanno certamente costituito un brusco risveglio. Già a metà degli anni ’60, si manifestano le prime avvisaglie di crisi con “la progressiva saturazione dei mercati di beni di consumo”. Nel 1964 l’economia statunitense entra in recessione. La guerra del Vietnam assicura una tenuta nell’utilizzo degli impianti industriali ma, allo stesso tempo, costringe a enormi finanziamenti e ad una massiccia iniezione di liquidità: l’inflazione si impenna, portando fatalmente alla svalutazione della moneta Usa. Così, quando i detentori di grandi quantità di dollari cominciano a chiederne la conversione in oro, il Gold exchange standard – il sistema monetario inaugurato a Bretton Woods, che sino a quel momento aveva appunto ancorato all’oro il regime dei cambi – entra in crisi. Nell’estate del ’71 si produce “un evento di portata storica”: il presidente Nixon decide unilateralmente la fine della convertibilità aurea del dollaro (che viene dunque svincolato da ogni riferimento alle riserve auree della Banca centrale americana) e il passaggio al cosiddetto Dollar standard, sistema nel quale il dollaro diviene “moneta di riferimento internazionale su base assolutamente fiduciaria”. Nell’economia si esprime qui tutta l’arbitrarietà del potere politico e militare della grande potenza americana (tra gli altri, Burgio cita in proposito l’ex governatore della Banca d’Italia, Guido Carli: “Il potere del dollaro si è manifestato nella sua natura puramente egemonica”). Gli Stati Uniti acquisiscono infatti un grande privilegio: quello di ottenere dall’estero ricchezza (merci e capitali) in cambio di una moneta di cui possono stampare a propria discrezione quantità illimitate.- Ma la medaglia ha un rovescio negativo che farà sentire a lunga scadenza i suoi pesanti effetti: “Il riferimento all’oro poneva un limite all’espansione dell’indebitamento reale degli Stati Uniti”. Ora questo limite salta: “la possibilità di creare liberamente moneta e di aumentare a dismisura il volume delle importazioni sottrae stimoli alla produzione”. E l’economia Usa si trasforma progressivamente in “un’economia basata prevalentemente sulla rendita (finanziaria), sul consumo e sul debito”. Nella seconda metà degli anni ’70, la crescita e gli investimenti segnano il passo, la base industriale statunitense si riduce; per converso, cominciano ad aumentare esponenzialmente il debito estero e il deficit pubblico.In una società capitalistica, quando sono minacciati i margini di profitto, la contromisura sistematicamente adottata è l’attacco al salario. Non è un caso quindi che, nel contesto suddetto, prenda corpo una poderosa offensiva contro il mondo del lavoro. Opportunamente, il libro focalizza l’attenzione su di un episodio emblematico, un convegno sulla “crisi della democrazia” del 1975, promosso dalla Trilateral, una commissione che “da due anni riunisce esponenti del Gotha politico-finanziario di Stati Uniti, Europa e Giappone”. La responsabilità della crisi è individuata, oltre che nella debolezza del dollaro, nell’inflazione, nei disavanzi pubblici, nell’esorbitante pressione dei sindacati. La ricetta raccomandata è la decisa applicazione degli orientamenti monetaristi di Milton Friedman e della scuola di Chicago: taglio dei salari e precarizzazione del lavoro, riduzione della spesa sociale, privatizzazioni e privilegi fiscali per il capitale”. Questo sarà d’ora in avanti lo “spirito dei tempi”.Negli anni ’80, Reagan e la sua reaganomics negli Usa, la signora Thatcher in Inghilterra incarneranno al meglio tali orientamenti. Il modello reaganiano, consentirà di mantenere i margini di profitto e conservare agli Usa il ruolo di motore mondiale dello sviluppo: ma, anche qui, pagando alla lunga un prezzo che si rivelerà fonte di squilibrio strutturale. Per un verso, la crescita economica viene infatti sospinta dalla lievitazione della spesa pubblica (per via dell’enorme aumento della spesa militare) e dall’afflusso di capitali esteri, attirati anche dalla montante speculazione finanziaria. Per altro verso, l’aumento delle importazioni si coniuga con il calo degli investimenti interni e con un processo di deindustrializzazione, incentivato dalle delocalizzazioni di imprese alla ricerca oltre confine del più basso costo del lavoro. La vittoria sul lavoro – concretizzatasi nella deflazione salariale e nell’aumento della disoccupazione – e la costruzione di un modello di “economia globale di importazione fondata sul debito” indurrà, a partire dalla seconda metà degli anni ’80, una progressiva caduta della produttività del lavoro e della competitività dell’industria americana. La tendenza al rallentamento e alla stagnazione non si arresterà più e sarà solo temporaneamente interrotta - alla fine degli anni ’90 - dalla bolla della cosiddetta New economy (anch’essa implosa con la crisi del 2000/2001).A completare il quadro occorre menzionare un altro importante elemento, rappresentato da quella che non solo Burgio ritiene una “mossa decisiva, nel passaggio storico che dà forma al modello reaganiano”: con l’instaurazione del Dollar standard, vengono infatti eliminati i drastici vincoli imposti al libero movimento dei capitali (quei vincoli che Keynes considerava il risultato più importante conseguito con gli accordi di Bretton Woods). La totale discrezionalità concessa ai capitali nella ricerca del massimo rendimento dentro e fuori i confini nazionali e le successive misure di deregolazione dei mercati finanziari (la cosiddetta deregulation) vanno a costituire le basi della progressiva finanziarizzazione dell’economia, il brodo di coltura in cui prolifereranno quei “paradisi fiscali” e quei prodotti speculativi ad alto rischio di cui tanto si parla ai nostri giorni. La trattazione offre la giusta profondità storica per vedere che anche questi, lungi dall’essere le malattie passeggere di un corpo sostanzialmente sano, sono al contrario esiti da ascrivere strutturalmente alle “magnifiche sorti e progressive” della cosiddetta “globalizzazione” capitalistica. - Una posizione altrettanto centrale è occupata, nel testo di Burgio, dalle mutazioni “istituzionali” che presiedono a tale processo involutivo: ad essere affrontata di petto è né più né meno che la delicata questione del deperimento della democrazia. Il tema è ad esempio introdotto attraverso la citazione di un limpido brano di Noam Chomsky: “La liberalizzazione finanziaria è un’arma molto potente contro la democrazia. Il libero movimento dei capitali crea un parlamento virtuale di investitori e prestatori che analizzano i programmi dei governi e votano contro se li ritengono irrazionali, cioè se fanno gli interessi degli elettori invece che quelli di una forte concentrazione di potere privato”. Le grandi imprese multinazionali, i fondi di investimento, le grandi concentrazioni bancarie – entità depositarie di una forza economica esorbitante e persino superiore a quella di alcuni stati nazionali – si affermano come veri e propri “sovrani privati”, costituendo nuove concentrazioni di potere oligarchico. I singoli stati entrano nel sistema gerarchizzato dell’economia mondiale: “nel quale Stati e capitali forti esercitano un potere di controllo nei confronti degli Stati nazionali più deboli”. Smentendo una tesi molto di moda fino a qualche tempo fa (si veda Impero di Tony Negri), l’autorità statuale non scompare affatto. Ma cambia natura: abdicando alla sua funzione sociale e piegandosi agli interessi del big business. E’ la privatizzazione del potere pubblico, non la sua estinzione. In un tale contesto si rafforza l’assunto ideologico secondo cui - sempre e comunque - “privato” equivale ad efficienza e “pubblico” è sinonimo di spreco: tutto congiura in vista di una generale mercatizzazione della società. Quanto detto sgombra il campo da un significativo equivoco. Non è vero che l’epopea neoliberista, il “libero mercato” si sono affermati ai danni dello stato. E’ vero il contrario. I suddetti processi hanno infatti comportato una sempre più stretta commistione di potere economico e potere politico (non a caso i Ministri dell’Economia provengono ormai in prevalenza dall’ambito finanziario), come concreta espressione di una sempre più accentuata divaricazione tra sistema capitalistico e democrazia. Lungi dal ritrarsi, le autorità statuali e sovrastatuali (repubblicani e democratici, centro-destra e centro-sinistra) hanno attivamente agito, adeguandosi alle opinioni del “mercato”, determinando la centralità dei mercati finanziari e svuotando di contenuti progressivi le politiche economiche (statuali e sovrastatuali), rigorosamente circoscritte a politiche monetarie e di bilancio (vedi ad esempio l’ossessivo ossequio ai parametri di Maastricht). Ecco perché dire “intervento pubblico” o “intervento statale” non è di per sé dire “qualcosa di sinistra”: lo sapeva perfettamente Gramsci – puntualmente citato da Burgio – secondo il quale l’intervento statale è “una condizione preliminare di ogni attività economica collettiva”. Nello specifico capitalistico, l’intervento dello stato crea le premesse “politico-giuridiche” dell’estrazione di plusvalore e – aggiunge Burgio citando Marx – si manifesta come “coazione extraeconomica” attraverso l’impiego della “violenza legale”.- Finora, di questa assai preoccupante ricostruzione, abbiamo omesso un versante essenziale: in tutta questa storia, che fine ha fatto la sinistra? Ovviamente il tema è ben presente nel testo, che anzi potrebbe esser riletto come un inflessibile atto d’accusa nei confronti del “cedimento” verticale della sinistra. L’interrogativo è talmente pregnante che se l’è posto persino una fonte non certo sospettabile di simpatie comuniste quale il Financial Times: “La caratteristica più notevole dell’era della disuguaglianza e del libero mercato iniziata negli anni Ottanta consiste nel fatto che si siano avute così poche reazioni alla stagnazione dei guadagni della gente comune in una così larga parte dell’economia del mondo sviluppato”. D’altra parte, viviamo in tempi nei quali persino il governatore della banca d’Italia (cioè a dire il guardiano dell’inflazione) lamenta il fatto che i salari dei lavoratori sono troppo bassi! Come si spiega, insomma, che “questa guerra contro il lavoro e la democrazia ha potuto essere condotta (e vinta) senza difficoltà: senza incontrare grande resistenza, senza suscitare aspri conflitti (…) e con il sostegno di tanti lavoratori dipendenti?”. Una parte della risposta Burgio la rinviene, da un lato, nell’opera sistematica e pervasiva dei mezzi di informazione, per lo più monopolizzati dal potere economico e politico, e dalla loro capacità di plasmare le opinioni in una società frammentata e massificata; d’altro lato, la individua nello stesso “potere seduttivo della merce e del mercato”, nell’imporsi cioè di stili di vita e modelli individualistici che innalzano ad unico metro di valore il successo nella competizione sociale, il consumo effimero, la ricchezza. In una parola, le classi dominanti vincono la loro battaglia sul terreno dell’egemonia ideologica. Ma, appunto, questa è solo una parte della risposta: Burgio aggiunge altre due essenziali specificazioni. La prima riguarda gli Stati Uniti. Qui, accanto ai fattori ideologici, ha operato un dispositivo materiale di “inclusione sociale”: nonostante il crescere delle disuguaglianze, le politiche neoliberiste (di Clinton prima, di Bush poi) hanno nel contempo facilitato l’accesso al credito (e all’indebitamento) da parte delle famiglie medio-borghesi ed anche operaie, garantendosi il consenso di un nuovo blocco sociale. Com’è noto, la scelta dell’indebitamento privatosi è rivelata la causa prossima dei successivi disastri (leggi: subprimes). Tuttavia, essa ha per tutta una fase consentito di produrre un vero e proprio processo egemonico. Per l’Europa (e l’Italia, in particolare) il discorso è diverso. Il vecchio continente ha distribuito soltanto “lacrime e sangue”. Per questo, Burgio giudica inapplicabile al contesto europeo la nozione gramsciana di “rivoluzione passiva”: la quale implica una reale capacità di “direzione dall’alto” e una parziale soddisfazione delle istanze delle classi subalterne. Ad esser chiamato eminentemente in causa è qui il colpevole “trasformismo” dei gruppi dirigenti della sinistra (“politica e sindacale”): fattore decisivo è la sua “regressione moderata”. Al cuore di tale drammatico ripiegamento sta lo sfondamento operato a sinistra dall’ideologia dominante - profilatosi già a partire dagli anni Ottanta e conclamato all’indomani dell’implosione del “socialismo reale” – con l’adesione alle mitologie della “libera concorrenza”, l’ “abbandono della prospettiva di classe” e l’assunzione del “capitalismo (…) come orizzonte non trascendibile”. Significativa, in proposito, la lapidaria durezza di un editorialista quale Mario Pirani: “La classe operaia non è in paradiso. E’ stata solo dimenticata dagli smarriti eredi di quelli che un tempo simbolicamente si fregiavano della falce e martello e ha finito per rivolgersi per delusione, rabbia e umiliazione alla destra più o meno populista (…). Rifletta chi ancora ne è capace”.- Tutto questo appartiene allo sfondo storico della crisi attuale: una crisi “strutturale” cui il libro dedica gli ultimi capitoli ma che noi evitiamo in questa sede di analizzare in dettaglio, lasciando spazio alla curiosità dei lettori. Concludiamo la nostra ricognizione testuale, soffermandoci piuttosto sulle prospettive che la crisi medesima può aprire. La tesi di Burgio è molto netta ed è destinata a deludere quanti ritengano (dimenticando tra l’altro le lezioni del secolo scorso) che la pesantezza e il carattere sistemico della crisi possano automaticamente sconfessare, delegittimare le classi dirigenti che di essa sono responsabili. All’opposto, Burgio ritiene che un’uscita a destra dalla crisi resti pericolosamente nel novero delle possibilità: “Il punto è che, nonostante la crisi, l’oligarchia finanziaria non ha perso un palmo del proprio potere e pretende che a pagare la crisi siano solo le classi lavoratrici”. I trasferimenti a fondo perduto di somme gigantesche dai bilanci pubblici alle casse delle banche hanno “poco a che vedere con la disoccupazione dilagante, la povertà, il crollo della domanda e della produzione. Cioè con le conseguenze sociali della crisi”. Tali eccezionali esborsi avranno tra l’altro, come inevitabile conseguenza, l’impennarsi dei debiti pubblici, che “peserà sulla massa dei contribuenti sia per l’incremento della pressione fiscale, sia per effetto dell’inflazione conseguente all’aumento della massa monetaria, sia attraverso un’ulteriore deflazione dei bilanci pubblici (mediante massicci tagli della spesa sociale)”.E’ vero che, nel contesto della crisi, sono necessariamente cambiate le strategie dell’establishment: l’intervento pubblico, anche nella forma estrema della nazionalizzazione, come d’incanto non rappresenta più un tabù nemmeno per il personale politico a suo tempo implicato nelle politiche neoliberiste. Tuttavia, ancora una volta, nazionalizzare non è di per sé penalizzante per il capitale: “Se l’ingresso dello Stato nel capitale di una società quotata si risolve di fatto in una delega in bianco (in questo caso il presupposto è che le società ‘non possono fallire’, per cui le loro perdite ricadono sulla fiscalità generale), non è più possibile distinguere tra capitale pubblico e capitale privato. Siccome questa confusione si compie in un contesto segnato dal netto prevalere degli interessi e dei poteri privati, essa si risolve nella privatizzazione del patrimonio collettivo”. Non a caso, riferendosi alla mega-nazionalizzazione di Aig decisa dall’attuale segretario al Tesoro Usa Tim Geithner, l’economista Nouriel Rubini ha parlato di un emblematico esempio di “socialismo per i ricchi e per Wall Street”. In fondo - annota Burgio – è quel che dice Marx su ciò che resta davvero pubblico in regime capitalistico: “L’unica parte della cosiddetta ricchezza nazionale che passi effettivamente in possesso collettivo dei popoli moderni è il loro debito pubblico”. Ma allora, se non è di per sé il “ritorno dello stato”, qual è il punto dirimente di tutta questa vicenda? Risposta: come sempre, la posta è ciò che si vuol porre alla base del nuovo modello sociale, “l’obiettivo finale è l’assoluta subordinazione del lavoro dipendente”. Potremmo dire che tutto il libro di Burgio ruota attorno a questo punto. E’ qui, su questa “contraddizione principale”, che si gioca la partita decisiva. Su questo, il potere capitalistico non deflette e non accetta mediazioni. Anzi, prova ad imporre un “salto di qualità”: un nuovo regime neo-corporativo, spinto da una vera e propria “rivoluzione conservatrice”. Il paradosso è che a parole tutti vogliono rilanciare la domanda ma, nei fatti, nessuno intende concretamente risalire l’abisso della deflazione salariale: “Non è una svista – precisa il testo – è una contraddizione reale (…). Il capitale si trova a dover scegliere tra la crisi da sovrapproduzione (da deficit di domanda) e la crisi sociale (da piena occupazione e alti salari) e sceglie il male minore”, cioè la prima, quella che non mette in discussione il potere capitalistico. Questo sta avvenendo in Europa. Obama è un capitolo a parte, che - per la verità - il libro sfiora soltanto: in ogni caso, quel tanto che basta per non alimentare eccessivi ottimismi. Ma la partita è aperta e la crisi globale ha riaperto i giochi. I difensori dell’assetto sociale vigente e del suo modo di produzione sono in campo e giocano senza esclusione di colpi: occorre vedere chi c’è sul fronte opposto. Nel mondo, da tempo vanno profilandosi nuovi e potenti giocatori, outsider globali che insidiano le tradizionali città fortificate del capitale. In Italia, non tutti si rassegnano al mesto sfiorire di una sinistra di classe: ad essi consigliamo vivamente la lettura di questo libro.
Per informazioniA proposito del libro di Alberto Burgio "Senza democrazia - un'analisi della crisi"
“Piuttosto che azzardare previsioni, in questo caso è importante riconoscere i dati di fatto”. Alberto Burgio invita a osservare questo principio cautelativo nel capitolo conclusivo del suo recente Senza democrazia. Un’analisi della crisi (Derive Approdi, Roma 2009) e lo fa riferendosi ad una questione specifica: l’esito del “passaggio di fase” prodotto dalla crisi in atto (segnatamente in relazione al ruolo degli Usa, che oggi appare indebolito dalla crisi stessa e insidiato da nuove ed emergenti potenze globali). Su tale questione torneremo tra poco. Qui interessa annotare – come primo approccio al testo suddetto – che tale propensione per una descrizione empiricamente documentata pervade in realtà tutta la trattazione, la quale si presenta appunto minuziosamente supportata dalla rilevazione di “dati di fatto”. Tra questi, sono ovviamente preponderanti i dati economici. Ma attenzione, non si tratta di un libro di economia (né, com’è noto, chi lo ha scritto fa di mestiere l’economista). Direi che è – né più né meno – un libro di storia assai istruttivo, da far leggere per far capire il nostro tempo: precisamente, lo sfondo storico dell’attuale crisi. Tuttavia, per andare al cuore dell’ispirazione, va anche detto che si tratta di un libro scritto da un intellettuale comunista, per il quale non a caso continua ad avere un’importanza cruciale l’indagine della totalità sociale capitalistica e delle sue strutturali contraddizioni. E’ qui che troviamo la chiave di lettura dei dati. In effetti, Burgio completa la sua opera nel vivo della crisi (la data di edizione è aprile 2009), quando l’altalena delle notizie e delle previsioni è in frenetico movimento: difficile, per chi scrive in queste condizioni, a ridosso di un evento in pieno svolgimento, chiudere il cerchio dei ragionamenti. Se questo testo vi riesce, è perché colloca l’analisi alla giusta profondità, dilatando l’apertura del tempo storico e interpretando questa crisi come un evento che arriva da lontano, prodotto dalle tendenze di fondo della società capitalistica. La crisi in cui siamo a tutt’oggi immersi, insomma, non nasce come un fungo, a seguito di qualche errore (seppur significativo) di politica economica o perché nei luoghi che contano sono saltate alcune regole di comportamento virtuoso. Né dunque, per contenerla e scongiurare il suo riprodursi, basta semplicemente ripristinare un codice etico capace di tenere a bada l’avidità (greed) degli operatori economici. Come è specificato sin dalle prime pagine del libro, essa affonda le sue radici nel “secolo lungo”, nella pancia di un ‘900 che non è un “secolo breve”: che dunque non inizia nel 1915/18, con la Prima guerra mondiale e la Rivoluzione d’Ottobre, per finire col biennio 1989/91 e con la caduta del Muro di Berlino (secondo una fortunata formula, che peraltro è stata successivamente corretta dal suo stesso autore, Eric J. E. Hobsbawm). Sarebbe infatti impossibile dar conto di quella prima guerra mondiale, prescindendo dalle sue cause: “(…) i conflitti interimperialistici divampati negli ultimi trent’anni dell’Ottocento e la Grande Depressione che si intrecciò a essi tra il 1873 e il ‘96”; cause che “restano operanti anche nel dopoguerra, conducendo alla Grande crisi degli anni Trenta e al secondo conflitto mondiale”. Sarebbe parimenti inconcepibile pretendere di cogliere il significato degli avvenimenti prodottisi tra il 1989 e il 1991, astraendo dai loro effetti: “l’unificazione mondiale dei mercati”, con “l’irruzione del gigantesco esercito industriale di riserva dei Paesi in via di sviluppo”, “l’unificazione monetaria europea” e, soprattutto, “lo sfondamento capitalistico sul terreno dei rapporti di lavoro”. La descrizione dei fatti e le connesse periodizzazioni rimarrebbero appese al vuoto se non seguissero il filo della lotta di classe e dei rapporti di forza tra le classi, se non individuassero in quel decisivo snodo epocale l’estinguersi della “grande paura del comunismo” e il conseguente scatenarsi della “furiosa reazione” del capitale. E’ qui che il modo di produzione vigente viene modellando un nuovo assetto sociale: la trasformazione della società in un “grande mercato dominato dalle multinazionali” e la costruzione di “una vera società di massa, nella quale le élites comandano a proprio talento”.- In questo largo contesto storico vanno rintracciate, più specificatamente, le linee di tendenza che conducono alla crisi odierna: ed è lungo l’asse di una tale ricerca che Burgio indica gli anni Settanta come un decennio di importanza essenziale: “La realtà odierna nasce negli anni Settanta”. Già in quegli anni, infatti, spinto dall’emergere delle contraddizioni strutturali che avevano capovolto la tendenza progressiva della fase “aurea” postbellica, l’establishment dell’Occidente capitalistico - a partire dal suo centro propulsore, gli Stati Uniti - preparava la svolta e poneva le premesse della sua rivincita. Dopo il 1945, sulle macerie della secondo conflitto mondiale, il capitalismo aveva costruito la sua ripresa: un’ “età dell’oro” durata trent’anni, fino agli anni ’70. Attorno alla produzione fordista e sulla base del compromesso stabilito tra big business, big government e big unions, erano cresciute occupazione e spesa pubblica, i redditi da lavoro avevano conquistato quote di Pil (questo stesso in consistente crescita), seguendo la scia dell’aumento della produttività. L’emancipazione sul piano della democrazia e dei diritti sociali e civili aveva accompagnato in un sincronico processo ascendente la redistribuzione di reddito attuata dalle politiche keynesiane e lo sviluppo del welfare universalistico. Non va omesso il fatto che tutto ciò avveniva su uno scenario internazionale condizionato dalla presenza dell’Unione Sovietica: “A dispetto di tutti i suoi limiti” - annota Burgio - quest’ultima “costituì per circa settant’anni (…) una sfida e un riferimento fondamentale, non soltanto per la sinistra intellettuale, politica e sindacale di tutto il mondo, ma anche per i governi e le classi dirigenti dei Paesi capitalistici”, oltre che “la dimostrazione della concreta possibilità della transizione a un’altra forma sociale”. Per chi avesse scambiato la realtà strutturalmente contraddittoria della produzione capitalistica con il sogno illuministico di un lineare e indefinito progresso umano, gli anni ’70 hanno certamente costituito un brusco risveglio. Già a metà degli anni ’60, si manifestano le prime avvisaglie di crisi con “la progressiva saturazione dei mercati di beni di consumo”. Nel 1964 l’economia statunitense entra in recessione. La guerra del Vietnam assicura una tenuta nell’utilizzo degli impianti industriali ma, allo stesso tempo, costringe a enormi finanziamenti e ad una massiccia iniezione di liquidità: l’inflazione si impenna, portando fatalmente alla svalutazione della moneta Usa. Così, quando i detentori di grandi quantità di dollari cominciano a chiederne la conversione in oro, il Gold exchange standard – il sistema monetario inaugurato a Bretton Woods, che sino a quel momento aveva appunto ancorato all’oro il regime dei cambi – entra in crisi. Nell’estate del ’71 si produce “un evento di portata storica”: il presidente Nixon decide unilateralmente la fine della convertibilità aurea del dollaro (che viene dunque svincolato da ogni riferimento alle riserve auree della Banca centrale americana) e il passaggio al cosiddetto Dollar standard, sistema nel quale il dollaro diviene “moneta di riferimento internazionale su base assolutamente fiduciaria”. Nell’economia si esprime qui tutta l’arbitrarietà del potere politico e militare della grande potenza americana (tra gli altri, Burgio cita in proposito l’ex governatore della Banca d’Italia, Guido Carli: “Il potere del dollaro si è manifestato nella sua natura puramente egemonica”). Gli Stati Uniti acquisiscono infatti un grande privilegio: quello di ottenere dall’estero ricchezza (merci e capitali) in cambio di una moneta di cui possono stampare a propria discrezione quantità illimitate.- Ma la medaglia ha un rovescio negativo che farà sentire a lunga scadenza i suoi pesanti effetti: “Il riferimento all’oro poneva un limite all’espansione dell’indebitamento reale degli Stati Uniti”. Ora questo limite salta: “la possibilità di creare liberamente moneta e di aumentare a dismisura il volume delle importazioni sottrae stimoli alla produzione”. E l’economia Usa si trasforma progressivamente in “un’economia basata prevalentemente sulla rendita (finanziaria), sul consumo e sul debito”. Nella seconda metà degli anni ’70, la crescita e gli investimenti segnano il passo, la base industriale statunitense si riduce; per converso, cominciano ad aumentare esponenzialmente il debito estero e il deficit pubblico.In una società capitalistica, quando sono minacciati i margini di profitto, la contromisura sistematicamente adottata è l’attacco al salario. Non è un caso quindi che, nel contesto suddetto, prenda corpo una poderosa offensiva contro il mondo del lavoro. Opportunamente, il libro focalizza l’attenzione su di un episodio emblematico, un convegno sulla “crisi della democrazia” del 1975, promosso dalla Trilateral, una commissione che “da due anni riunisce esponenti del Gotha politico-finanziario di Stati Uniti, Europa e Giappone”. La responsabilità della crisi è individuata, oltre che nella debolezza del dollaro, nell’inflazione, nei disavanzi pubblici, nell’esorbitante pressione dei sindacati. La ricetta raccomandata è la decisa applicazione degli orientamenti monetaristi di Milton Friedman e della scuola di Chicago: taglio dei salari e precarizzazione del lavoro, riduzione della spesa sociale, privatizzazioni e privilegi fiscali per il capitale”. Questo sarà d’ora in avanti lo “spirito dei tempi”.Negli anni ’80, Reagan e la sua reaganomics negli Usa, la signora Thatcher in Inghilterra incarneranno al meglio tali orientamenti. Il modello reaganiano, consentirà di mantenere i margini di profitto e conservare agli Usa il ruolo di motore mondiale dello sviluppo: ma, anche qui, pagando alla lunga un prezzo che si rivelerà fonte di squilibrio strutturale. Per un verso, la crescita economica viene infatti sospinta dalla lievitazione della spesa pubblica (per via dell’enorme aumento della spesa militare) e dall’afflusso di capitali esteri, attirati anche dalla montante speculazione finanziaria. Per altro verso, l’aumento delle importazioni si coniuga con il calo degli investimenti interni e con un processo di deindustrializzazione, incentivato dalle delocalizzazioni di imprese alla ricerca oltre confine del più basso costo del lavoro. La vittoria sul lavoro – concretizzatasi nella deflazione salariale e nell’aumento della disoccupazione – e la costruzione di un modello di “economia globale di importazione fondata sul debito” indurrà, a partire dalla seconda metà degli anni ’80, una progressiva caduta della produttività del lavoro e della competitività dell’industria americana. La tendenza al rallentamento e alla stagnazione non si arresterà più e sarà solo temporaneamente interrotta - alla fine degli anni ’90 - dalla bolla della cosiddetta New economy (anch’essa implosa con la crisi del 2000/2001).A completare il quadro occorre menzionare un altro importante elemento, rappresentato da quella che non solo Burgio ritiene una “mossa decisiva, nel passaggio storico che dà forma al modello reaganiano”: con l’instaurazione del Dollar standard, vengono infatti eliminati i drastici vincoli imposti al libero movimento dei capitali (quei vincoli che Keynes considerava il risultato più importante conseguito con gli accordi di Bretton Woods). La totale discrezionalità concessa ai capitali nella ricerca del massimo rendimento dentro e fuori i confini nazionali e le successive misure di deregolazione dei mercati finanziari (la cosiddetta deregulation) vanno a costituire le basi della progressiva finanziarizzazione dell’economia, il brodo di coltura in cui prolifereranno quei “paradisi fiscali” e quei prodotti speculativi ad alto rischio di cui tanto si parla ai nostri giorni. La trattazione offre la giusta profondità storica per vedere che anche questi, lungi dall’essere le malattie passeggere di un corpo sostanzialmente sano, sono al contrario esiti da ascrivere strutturalmente alle “magnifiche sorti e progressive” della cosiddetta “globalizzazione” capitalistica. - Una posizione altrettanto centrale è occupata, nel testo di Burgio, dalle mutazioni “istituzionali” che presiedono a tale processo involutivo: ad essere affrontata di petto è né più né meno che la delicata questione del deperimento della democrazia. Il tema è ad esempio introdotto attraverso la citazione di un limpido brano di Noam Chomsky: “La liberalizzazione finanziaria è un’arma molto potente contro la democrazia. Il libero movimento dei capitali crea un parlamento virtuale di investitori e prestatori che analizzano i programmi dei governi e votano contro se li ritengono irrazionali, cioè se fanno gli interessi degli elettori invece che quelli di una forte concentrazione di potere privato”. Le grandi imprese multinazionali, i fondi di investimento, le grandi concentrazioni bancarie – entità depositarie di una forza economica esorbitante e persino superiore a quella di alcuni stati nazionali – si affermano come veri e propri “sovrani privati”, costituendo nuove concentrazioni di potere oligarchico. I singoli stati entrano nel sistema gerarchizzato dell’economia mondiale: “nel quale Stati e capitali forti esercitano un potere di controllo nei confronti degli Stati nazionali più deboli”. Smentendo una tesi molto di moda fino a qualche tempo fa (si veda Impero di Tony Negri), l’autorità statuale non scompare affatto. Ma cambia natura: abdicando alla sua funzione sociale e piegandosi agli interessi del big business. E’ la privatizzazione del potere pubblico, non la sua estinzione. In un tale contesto si rafforza l’assunto ideologico secondo cui - sempre e comunque - “privato” equivale ad efficienza e “pubblico” è sinonimo di spreco: tutto congiura in vista di una generale mercatizzazione della società. Quanto detto sgombra il campo da un significativo equivoco. Non è vero che l’epopea neoliberista, il “libero mercato” si sono affermati ai danni dello stato. E’ vero il contrario. I suddetti processi hanno infatti comportato una sempre più stretta commistione di potere economico e potere politico (non a caso i Ministri dell’Economia provengono ormai in prevalenza dall’ambito finanziario), come concreta espressione di una sempre più accentuata divaricazione tra sistema capitalistico e democrazia. Lungi dal ritrarsi, le autorità statuali e sovrastatuali (repubblicani e democratici, centro-destra e centro-sinistra) hanno attivamente agito, adeguandosi alle opinioni del “mercato”, determinando la centralità dei mercati finanziari e svuotando di contenuti progressivi le politiche economiche (statuali e sovrastatuali), rigorosamente circoscritte a politiche monetarie e di bilancio (vedi ad esempio l’ossessivo ossequio ai parametri di Maastricht). Ecco perché dire “intervento pubblico” o “intervento statale” non è di per sé dire “qualcosa di sinistra”: lo sapeva perfettamente Gramsci – puntualmente citato da Burgio – secondo il quale l’intervento statale è “una condizione preliminare di ogni attività economica collettiva”. Nello specifico capitalistico, l’intervento dello stato crea le premesse “politico-giuridiche” dell’estrazione di plusvalore e – aggiunge Burgio citando Marx – si manifesta come “coazione extraeconomica” attraverso l’impiego della “violenza legale”.- Finora, di questa assai preoccupante ricostruzione, abbiamo omesso un versante essenziale: in tutta questa storia, che fine ha fatto la sinistra? Ovviamente il tema è ben presente nel testo, che anzi potrebbe esser riletto come un inflessibile atto d’accusa nei confronti del “cedimento” verticale della sinistra. L’interrogativo è talmente pregnante che se l’è posto persino una fonte non certo sospettabile di simpatie comuniste quale il Financial Times: “La caratteristica più notevole dell’era della disuguaglianza e del libero mercato iniziata negli anni Ottanta consiste nel fatto che si siano avute così poche reazioni alla stagnazione dei guadagni della gente comune in una così larga parte dell’economia del mondo sviluppato”. D’altra parte, viviamo in tempi nei quali persino il governatore della banca d’Italia (cioè a dire il guardiano dell’inflazione) lamenta il fatto che i salari dei lavoratori sono troppo bassi! Come si spiega, insomma, che “questa guerra contro il lavoro e la democrazia ha potuto essere condotta (e vinta) senza difficoltà: senza incontrare grande resistenza, senza suscitare aspri conflitti (…) e con il sostegno di tanti lavoratori dipendenti?”. Una parte della risposta Burgio la rinviene, da un lato, nell’opera sistematica e pervasiva dei mezzi di informazione, per lo più monopolizzati dal potere economico e politico, e dalla loro capacità di plasmare le opinioni in una società frammentata e massificata; d’altro lato, la individua nello stesso “potere seduttivo della merce e del mercato”, nell’imporsi cioè di stili di vita e modelli individualistici che innalzano ad unico metro di valore il successo nella competizione sociale, il consumo effimero, la ricchezza. In una parola, le classi dominanti vincono la loro battaglia sul terreno dell’egemonia ideologica. Ma, appunto, questa è solo una parte della risposta: Burgio aggiunge altre due essenziali specificazioni. La prima riguarda gli Stati Uniti. Qui, accanto ai fattori ideologici, ha operato un dispositivo materiale di “inclusione sociale”: nonostante il crescere delle disuguaglianze, le politiche neoliberiste (di Clinton prima, di Bush poi) hanno nel contempo facilitato l’accesso al credito (e all’indebitamento) da parte delle famiglie medio-borghesi ed anche operaie, garantendosi il consenso di un nuovo blocco sociale. Com’è noto, la scelta dell’indebitamento privatosi è rivelata la causa prossima dei successivi disastri (leggi: subprimes). Tuttavia, essa ha per tutta una fase consentito di produrre un vero e proprio processo egemonico. Per l’Europa (e l’Italia, in particolare) il discorso è diverso. Il vecchio continente ha distribuito soltanto “lacrime e sangue”. Per questo, Burgio giudica inapplicabile al contesto europeo la nozione gramsciana di “rivoluzione passiva”: la quale implica una reale capacità di “direzione dall’alto” e una parziale soddisfazione delle istanze delle classi subalterne. Ad esser chiamato eminentemente in causa è qui il colpevole “trasformismo” dei gruppi dirigenti della sinistra (“politica e sindacale”): fattore decisivo è la sua “regressione moderata”. Al cuore di tale drammatico ripiegamento sta lo sfondamento operato a sinistra dall’ideologia dominante - profilatosi già a partire dagli anni Ottanta e conclamato all’indomani dell’implosione del “socialismo reale” – con l’adesione alle mitologie della “libera concorrenza”, l’ “abbandono della prospettiva di classe” e l’assunzione del “capitalismo (…) come orizzonte non trascendibile”. Significativa, in proposito, la lapidaria durezza di un editorialista quale Mario Pirani: “La classe operaia non è in paradiso. E’ stata solo dimenticata dagli smarriti eredi di quelli che un tempo simbolicamente si fregiavano della falce e martello e ha finito per rivolgersi per delusione, rabbia e umiliazione alla destra più o meno populista (…). Rifletta chi ancora ne è capace”.- Tutto questo appartiene allo sfondo storico della crisi attuale: una crisi “strutturale” cui il libro dedica gli ultimi capitoli ma che noi evitiamo in questa sede di analizzare in dettaglio, lasciando spazio alla curiosità dei lettori. Concludiamo la nostra ricognizione testuale, soffermandoci piuttosto sulle prospettive che la crisi medesima può aprire. La tesi di Burgio è molto netta ed è destinata a deludere quanti ritengano (dimenticando tra l’altro le lezioni del secolo scorso) che la pesantezza e il carattere sistemico della crisi possano automaticamente sconfessare, delegittimare le classi dirigenti che di essa sono responsabili. All’opposto, Burgio ritiene che un’uscita a destra dalla crisi resti pericolosamente nel novero delle possibilità: “Il punto è che, nonostante la crisi, l’oligarchia finanziaria non ha perso un palmo del proprio potere e pretende che a pagare la crisi siano solo le classi lavoratrici”. I trasferimenti a fondo perduto di somme gigantesche dai bilanci pubblici alle casse delle banche hanno “poco a che vedere con la disoccupazione dilagante, la povertà, il crollo della domanda e della produzione. Cioè con le conseguenze sociali della crisi”. Tali eccezionali esborsi avranno tra l’altro, come inevitabile conseguenza, l’impennarsi dei debiti pubblici, che “peserà sulla massa dei contribuenti sia per l’incremento della pressione fiscale, sia per effetto dell’inflazione conseguente all’aumento della massa monetaria, sia attraverso un’ulteriore deflazione dei bilanci pubblici (mediante massicci tagli della spesa sociale)”.E’ vero che, nel contesto della crisi, sono necessariamente cambiate le strategie dell’establishment: l’intervento pubblico, anche nella forma estrema della nazionalizzazione, come d’incanto non rappresenta più un tabù nemmeno per il personale politico a suo tempo implicato nelle politiche neoliberiste. Tuttavia, ancora una volta, nazionalizzare non è di per sé penalizzante per il capitale: “Se l’ingresso dello Stato nel capitale di una società quotata si risolve di fatto in una delega in bianco (in questo caso il presupposto è che le società ‘non possono fallire’, per cui le loro perdite ricadono sulla fiscalità generale), non è più possibile distinguere tra capitale pubblico e capitale privato. Siccome questa confusione si compie in un contesto segnato dal netto prevalere degli interessi e dei poteri privati, essa si risolve nella privatizzazione del patrimonio collettivo”. Non a caso, riferendosi alla mega-nazionalizzazione di Aig decisa dall’attuale segretario al Tesoro Usa Tim Geithner, l’economista Nouriel Rubini ha parlato di un emblematico esempio di “socialismo per i ricchi e per Wall Street”. In fondo - annota Burgio – è quel che dice Marx su ciò che resta davvero pubblico in regime capitalistico: “L’unica parte della cosiddetta ricchezza nazionale che passi effettivamente in possesso collettivo dei popoli moderni è il loro debito pubblico”. Ma allora, se non è di per sé il “ritorno dello stato”, qual è il punto dirimente di tutta questa vicenda? Risposta: come sempre, la posta è ciò che si vuol porre alla base del nuovo modello sociale, “l’obiettivo finale è l’assoluta subordinazione del lavoro dipendente”. Potremmo dire che tutto il libro di Burgio ruota attorno a questo punto. E’ qui, su questa “contraddizione principale”, che si gioca la partita decisiva. Su questo, il potere capitalistico non deflette e non accetta mediazioni. Anzi, prova ad imporre un “salto di qualità”: un nuovo regime neo-corporativo, spinto da una vera e propria “rivoluzione conservatrice”. Il paradosso è che a parole tutti vogliono rilanciare la domanda ma, nei fatti, nessuno intende concretamente risalire l’abisso della deflazione salariale: “Non è una svista – precisa il testo – è una contraddizione reale (…). Il capitale si trova a dover scegliere tra la crisi da sovrapproduzione (da deficit di domanda) e la crisi sociale (da piena occupazione e alti salari) e sceglie il male minore”, cioè la prima, quella che non mette in discussione il potere capitalistico. Questo sta avvenendo in Europa. Obama è un capitolo a parte, che - per la verità - il libro sfiora soltanto: in ogni caso, quel tanto che basta per non alimentare eccessivi ottimismi. Ma la partita è aperta e la crisi globale ha riaperto i giochi. I difensori dell’assetto sociale vigente e del suo modo di produzione sono in campo e giocano senza esclusione di colpi: occorre vedere chi c’è sul fronte opposto. Nel mondo, da tempo vanno profilandosi nuovi e potenti giocatori, outsider globali che insidiano le tradizionali città fortificate del capitale.

piero

lunedì

Con il patrocinio del Comune di Aosta,
Liasion editrice e la Libreria Aubert vi invitano
alla presentazione del libro
"Aosta città necessaria"
di Daniele Gorret ed Enrico Martinet - Liaison editrice Courmayeur

Aosta, 30 settembre 2009, ore 18
Saletta Hôtels des Etats (Piazza Chanoux)

Letture di Paola Corti
Intervengono gli autori


"Aosta città necessaria" è la felice definizione del pittore e scrittore Alberto Savinio, fratello di Giorgio De Chirico, che visita Aosta alla fine degli anni Quaranta e dedica al capoluogo aostano una serie di articoli pubblicati sul "Corriere della Sera" e sul "Corriere dell´Informazione." Per il cosmopilita Savinio, nato ad Atene e vissuto a Parigi, Aosta è necessaria non solo perché avrebbe voluto viverci ma in quanto situata idealmente al centro della Valle. Da questo spunto parte la riflessione di due dei più noti scrittori valdostani, Daniele Gorret ed Enrico Martinet, che attraverso percorsi nettamente distinti restituiscono la loro immagine di Aosta e spiegano come, nonostante i cambiamenti degli ultimi sessant´anni, continui a essere una città necessaria. Dopo "Vetan" di Lalla Romano, "Rhêmes" di Ernesto Ferrero, "Il Cervino è nudo" di Enrico Camanni, il libro "Aosta città necessaria" si inserisce nella collana "luoghi" valdostani intrapresa dalla casa editrice Liaison di Courmayeur per valorizzare le realtà locali. Liaison editrice ha ricevuto lo scorso aprile il prestigioso Premio ITAS di Trento per il libro "Memoria d'autunno. Al Piccolo San Bernardo con Rigoni Stern' di Hervé Gaymard.


Con il patrocinio del Comune di Aosta,
Liasion editrice e la Libreria Aubert vi invitano
alla presentazione del libro
"Aosta città necessaria"
di Daniele Gorret ed Enrico Martinet - Liaison editrice Courmayeur

Aosta, 30 settembre 2009, ore 18
Saletta Hôtels des Etats (Piazza Chanoux)

Letture di Paola Corti
Intervengono gli autori


"Aosta città necessaria" è la felice definizione del pittore e scrittore Alberto Savinio, fratello di Giorgio De Chirico, che visita Aosta alla fine degli anni Quaranta e dedica al capoluogo aostano una serie di articoli pubblicati sul "Corriere della Sera" e sul "Corriere dell´Informazione." Per il cosmopilita Savinio, nato ad Atene e vissuto a Parigi, Aosta è necessaria non solo perché avrebbe voluto viverci ma in quanto situata idealmente al centro della Valle. Da questo spunto parte la riflessione di due dei più noti scrittori valdostani, Daniele Gorret ed Enrico Martinet, che attraverso percorsi nettamente distinti restituiscono la loro immagine di Aosta e spiegano come, nonostante i cambiamenti degli ultimi sessant´anni, continui a essere una città necessaria. Dopo "Vetan" di Lalla Romano, "Rhêmes" di Ernesto Ferrero, "Il Cervino è nudo" di Enrico Camanni, il libro "Aosta città necessaria" si inserisce nella collana "luoghi" valdostani intrapresa dalla casa editrice Liaison di Courmayeur per valorizzare le realtà locali. Liaison editrice ha ricevuto lo scorso aprile il prestigioso Premio ITAS di Trento per il libro "Memoria d'autunno. Al Piccolo San Bernardo con Rigoni Stern' di Hervé Gaymard.