A proposito del libro di Alberto Burgio "Senza democrazia - un'analisi della crisi"
Derive Approdi
“Piuttosto che azzardare previsioni, in questo caso è importante riconoscere i dati di fatto”. Alberto Burgio invita a osservare questo principio cautelativo nel capitolo conclusivo del suo recente Senza democrazia. Un’analisi della crisi (Derive Approdi, Roma 2009) e lo fa riferendosi ad una questione specifica: l’esito del “passaggio di fase” prodotto dalla crisi in atto (segnatamente in relazione al ruolo degli Usa, che oggi appare indebolito dalla crisi stessa e insidiato da nuove ed emergenti potenze globali). Su tale questione torneremo tra poco. Qui interessa annotare – come primo approccio al testo suddetto – che tale propensione per una descrizione empiricamente documentata pervade in realtà tutta la trattazione, la quale si presenta appunto minuziosamente supportata dalla rilevazione di “dati di fatto”. Tra questi, sono ovviamente preponderanti i dati economici. Ma attenzione, non si tratta di un libro di economia (né, com’è noto, chi lo ha scritto fa di mestiere l’economista). Direi che è – né più né meno – un libro di storia assai istruttivo, da far leggere per far capire il nostro tempo: precisamente, lo sfondo storico dell’attuale crisi. Tuttavia, per andare al cuore dell’ispirazione, va anche detto che si tratta di un libro scritto da un intellettuale comunista, per il quale non a caso continua ad avere un’importanza cruciale l’indagine della totalità sociale capitalistica e delle sue strutturali contraddizioni. E’ qui che troviamo la chiave di lettura dei dati. In effetti, Burgio completa la sua opera nel vivo della crisi (la data di edizione è aprile 2009), quando l’altalena delle notizie e delle previsioni è in frenetico movimento: difficile, per chi scrive in queste condizioni, a ridosso di un evento in pieno svolgimento, chiudere il cerchio dei ragionamenti. Se questo testo vi riesce, è perché colloca l’analisi alla giusta profondità, dilatando l’apertura del tempo storico e interpretando questa crisi come un evento che arriva da lontano, prodotto dalle tendenze di fondo della società capitalistica. La crisi in cui siamo a tutt’oggi immersi, insomma, non nasce come un fungo, a seguito di qualche errore (seppur significativo) di politica economica o perché nei luoghi che contano sono saltate alcune regole di comportamento virtuoso. Né dunque, per contenerla e scongiurare il suo riprodursi, basta semplicemente ripristinare un codice etico capace di tenere a bada l’avidità (greed) degli operatori economici. Come è specificato sin dalle prime pagine del libro, essa affonda le sue radici nel “secolo lungo”, nella pancia di un ‘900 che non è un “secolo breve”: che dunque non inizia nel 1915/18, con la Prima guerra mondiale e la Rivoluzione d’Ottobre, per finire col biennio 1989/91 e con la caduta del Muro di Berlino (secondo una fortunata formula, che peraltro è stata successivamente corretta dal suo stesso autore, Eric J. E. Hobsbawm). Sarebbe infatti impossibile dar conto di quella prima guerra mondiale, prescindendo dalle sue cause: “(…) i conflitti interimperialistici divampati negli ultimi trent’anni dell’Ottocento e la Grande Depressione che si intrecciò a essi tra il 1873 e il ‘96”; cause che “restano operanti anche nel dopoguerra, conducendo alla Grande crisi degli anni Trenta e al secondo conflitto mondiale”. Sarebbe parimenti inconcepibile pretendere di cogliere il significato degli avvenimenti prodottisi tra il 1989 e il 1991, astraendo dai loro effetti: “l’unificazione mondiale dei mercati”, con “l’irruzione del gigantesco esercito industriale di riserva dei Paesi in via di sviluppo”, “l’unificazione monetaria europea” e, soprattutto, “lo sfondamento capitalistico sul terreno dei rapporti di lavoro”. La descrizione dei fatti e le connesse periodizzazioni rimarrebbero appese al vuoto se non seguissero il filo della lotta di classe e dei rapporti di forza tra le classi, se non individuassero in quel decisivo snodo epocale l’estinguersi della “grande paura del comunismo” e il conseguente scatenarsi della “furiosa reazione” del capitale. E’ qui che il modo di produzione vigente viene modellando un nuovo assetto sociale: la trasformazione della società in un “grande mercato dominato dalle multinazionali” e la costruzione di “una vera società di massa, nella quale le élites comandano a proprio talento”.- In questo largo contesto storico vanno rintracciate, più specificatamente, le linee di tendenza che conducono alla crisi odierna: ed è lungo l’asse di una tale ricerca che Burgio indica gli anni Settanta come un decennio di importanza essenziale: “La realtà odierna nasce negli anni Settanta”. Già in quegli anni, infatti, spinto dall’emergere delle contraddizioni strutturali che avevano capovolto la tendenza progressiva della fase “aurea” postbellica, l’establishment dell’Occidente capitalistico - a partire dal suo centro propulsore, gli Stati Uniti - preparava la svolta e poneva le premesse della sua rivincita. Dopo il 1945, sulle macerie della secondo conflitto mondiale, il capitalismo aveva costruito la sua ripresa: un’ “età dell’oro” durata trent’anni, fino agli anni ’70. Attorno alla produzione fordista e sulla base del compromesso stabilito tra big business, big government e big unions, erano cresciute occupazione e spesa pubblica, i redditi da lavoro avevano conquistato quote di Pil (questo stesso in consistente crescita), seguendo la scia dell’aumento della produttività. L’emancipazione sul piano della democrazia e dei diritti sociali e civili aveva accompagnato in un sincronico processo ascendente la redistribuzione di reddito attuata dalle politiche keynesiane e lo sviluppo del welfare universalistico. Non va omesso il fatto che tutto ciò avveniva su uno scenario internazionale condizionato dalla presenza dell’Unione Sovietica: “A dispetto di tutti i suoi limiti” - annota Burgio - quest’ultima “costituì per circa settant’anni (…) una sfida e un riferimento fondamentale, non soltanto per la sinistra intellettuale, politica e sindacale di tutto il mondo, ma anche per i governi e le classi dirigenti dei Paesi capitalistici”, oltre che “la dimostrazione della concreta possibilità della transizione a un’altra forma sociale”. Per chi avesse scambiato la realtà strutturalmente contraddittoria della produzione capitalistica con il sogno illuministico di un lineare e indefinito progresso umano, gli anni ’70 hanno certamente costituito un brusco risveglio. Già a metà degli anni ’60, si manifestano le prime avvisaglie di crisi con “la progressiva saturazione dei mercati di beni di consumo”. Nel 1964 l’economia statunitense entra in recessione. La guerra del Vietnam assicura una tenuta nell’utilizzo degli impianti industriali ma, allo stesso tempo, costringe a enormi finanziamenti e ad una massiccia iniezione di liquidità: l’inflazione si impenna, portando fatalmente alla svalutazione della moneta Usa. Così, quando i detentori di grandi quantità di dollari cominciano a chiederne la conversione in oro, il Gold exchange standard – il sistema monetario inaugurato a Bretton Woods, che sino a quel momento aveva appunto ancorato all’oro il regime dei cambi – entra in crisi. Nell’estate del ’71 si produce “un evento di portata storica”: il presidente Nixon decide unilateralmente la fine della convertibilità aurea del dollaro (che viene dunque svincolato da ogni riferimento alle riserve auree della Banca centrale americana) e il passaggio al cosiddetto Dollar standard, sistema nel quale il dollaro diviene “moneta di riferimento internazionale su base assolutamente fiduciaria”. Nell’economia si esprime qui tutta l’arbitrarietà del potere politico e militare della grande potenza americana (tra gli altri, Burgio cita in proposito l’ex governatore della Banca d’Italia, Guido Carli: “Il potere del dollaro si è manifestato nella sua natura puramente egemonica”). Gli Stati Uniti acquisiscono infatti un grande privilegio: quello di ottenere dall’estero ricchezza (merci e capitali) in cambio di una moneta di cui possono stampare a propria discrezione quantità illimitate.- Ma la medaglia ha un rovescio negativo che farà sentire a lunga scadenza i suoi pesanti effetti: “Il riferimento all’oro poneva un limite all’espansione dell’indebitamento reale degli Stati Uniti”. Ora questo limite salta: “la possibilità di creare liberamente moneta e di aumentare a dismisura il volume delle importazioni sottrae stimoli alla produzione”. E l’economia Usa si trasforma progressivamente in “un’economia basata prevalentemente sulla rendita (finanziaria), sul consumo e sul debito”. Nella seconda metà degli anni ’70, la crescita e gli investimenti segnano il passo, la base industriale statunitense si riduce; per converso, cominciano ad aumentare esponenzialmente il debito estero e il deficit pubblico.In una società capitalistica, quando sono minacciati i margini di profitto, la contromisura sistematicamente adottata è l’attacco al salario. Non è un caso quindi che, nel contesto suddetto, prenda corpo una poderosa offensiva contro il mondo del lavoro. Opportunamente, il libro focalizza l’attenzione su di un episodio emblematico, un convegno sulla “crisi della democrazia” del 1975, promosso dalla Trilateral, una commissione che “da due anni riunisce esponenti del Gotha politico-finanziario di Stati Uniti, Europa e Giappone”. La responsabilità della crisi è individuata, oltre che nella debolezza del dollaro, nell’inflazione, nei disavanzi pubblici, nell’esorbitante pressione dei sindacati. La ricetta raccomandata è la decisa applicazione degli orientamenti monetaristi di Milton Friedman e della scuola di Chicago: taglio dei salari e precarizzazione del lavoro, riduzione della spesa sociale, privatizzazioni e privilegi fiscali per il capitale”. Questo sarà d’ora in avanti lo “spirito dei tempi”.Negli anni ’80, Reagan e la sua reaganomics negli Usa, la signora Thatcher in Inghilterra incarneranno al meglio tali orientamenti. Il modello reaganiano, consentirà di mantenere i margini di profitto e conservare agli Usa il ruolo di motore mondiale dello sviluppo: ma, anche qui, pagando alla lunga un prezzo che si rivelerà fonte di squilibrio strutturale. Per un verso, la crescita economica viene infatti sospinta dalla lievitazione della spesa pubblica (per via dell’enorme aumento della spesa militare) e dall’afflusso di capitali esteri, attirati anche dalla montante speculazione finanziaria. Per altro verso, l’aumento delle importazioni si coniuga con il calo degli investimenti interni e con un processo di deindustrializzazione, incentivato dalle delocalizzazioni di imprese alla ricerca oltre confine del più basso costo del lavoro. La vittoria sul lavoro – concretizzatasi nella deflazione salariale e nell’aumento della disoccupazione – e la costruzione di un modello di “economia globale di importazione fondata sul debito” indurrà, a partire dalla seconda metà degli anni ’80, una progressiva caduta della produttività del lavoro e della competitività dell’industria americana. La tendenza al rallentamento e alla stagnazione non si arresterà più e sarà solo temporaneamente interrotta - alla fine degli anni ’90 - dalla bolla della cosiddetta New economy (anch’essa implosa con la crisi del 2000/2001).A completare il quadro occorre menzionare un altro importante elemento, rappresentato da quella che non solo Burgio ritiene una “mossa decisiva, nel passaggio storico che dà forma al modello reaganiano”: con l’instaurazione del Dollar standard, vengono infatti eliminati i drastici vincoli imposti al libero movimento dei capitali (quei vincoli che Keynes considerava il risultato più importante conseguito con gli accordi di Bretton Woods). La totale discrezionalità concessa ai capitali nella ricerca del massimo rendimento dentro e fuori i confini nazionali e le successive misure di deregolazione dei mercati finanziari (la cosiddetta deregulation) vanno a costituire le basi della progressiva finanziarizzazione dell’economia, il brodo di coltura in cui prolifereranno quei “paradisi fiscali” e quei prodotti speculativi ad alto rischio di cui tanto si parla ai nostri giorni. La trattazione offre la giusta profondità storica per vedere che anche questi, lungi dall’essere le malattie passeggere di un corpo sostanzialmente sano, sono al contrario esiti da ascrivere strutturalmente alle “magnifiche sorti e progressive” della cosiddetta “globalizzazione” capitalistica. - Una posizione altrettanto centrale è occupata, nel testo di Burgio, dalle mutazioni “istituzionali” che presiedono a tale processo involutivo: ad essere affrontata di petto è né più né meno che la delicata questione del deperimento della democrazia. Il tema è ad esempio introdotto attraverso la citazione di un limpido brano di Noam Chomsky: “La liberalizzazione finanziaria è un’arma molto potente contro la democrazia. Il libero movimento dei capitali crea un parlamento virtuale di investitori e prestatori che analizzano i programmi dei governi e votano contro se li ritengono irrazionali, cioè se fanno gli interessi degli elettori invece che quelli di una forte concentrazione di potere privato”. Le grandi imprese multinazionali, i fondi di investimento, le grandi concentrazioni bancarie – entità depositarie di una forza economica esorbitante e persino superiore a quella di alcuni stati nazionali – si affermano come veri e propri “sovrani privati”, costituendo nuove concentrazioni di potere oligarchico. I singoli stati entrano nel sistema gerarchizzato dell’economia mondiale: “nel quale Stati e capitali forti esercitano un potere di controllo nei confronti degli Stati nazionali più deboli”. Smentendo una tesi molto di moda fino a qualche tempo fa (si veda Impero di Tony Negri), l’autorità statuale non scompare affatto. Ma cambia natura: abdicando alla sua funzione sociale e piegandosi agli interessi del big business. E’ la privatizzazione del potere pubblico, non la sua estinzione. In un tale contesto si rafforza l’assunto ideologico secondo cui - sempre e comunque - “privato” equivale ad efficienza e “pubblico” è sinonimo di spreco: tutto congiura in vista di una generale mercatizzazione della società. Quanto detto sgombra il campo da un significativo equivoco. Non è vero che l’epopea neoliberista, il “libero mercato” si sono affermati ai danni dello stato. E’ vero il contrario. I suddetti processi hanno infatti comportato una sempre più stretta commistione di potere economico e potere politico (non a caso i Ministri dell’Economia provengono ormai in prevalenza dall’ambito finanziario), come concreta espressione di una sempre più accentuata divaricazione tra sistema capitalistico e democrazia. Lungi dal ritrarsi, le autorità statuali e sovrastatuali (repubblicani e democratici, centro-destra e centro-sinistra) hanno attivamente agito, adeguandosi alle opinioni del “mercato”, determinando la centralità dei mercati finanziari e svuotando di contenuti progressivi le politiche economiche (statuali e sovrastatuali), rigorosamente circoscritte a politiche monetarie e di bilancio (vedi ad esempio l’ossessivo ossequio ai parametri di Maastricht). Ecco perché dire “intervento pubblico” o “intervento statale” non è di per sé dire “qualcosa di sinistra”: lo sapeva perfettamente Gramsci – puntualmente citato da Burgio – secondo il quale l’intervento statale è “una condizione preliminare di ogni attività economica collettiva”. Nello specifico capitalistico, l’intervento dello stato crea le premesse “politico-giuridiche” dell’estrazione di plusvalore e – aggiunge Burgio citando Marx – si manifesta come “coazione extraeconomica” attraverso l’impiego della “violenza legale”.- Finora, di questa assai preoccupante ricostruzione, abbiamo omesso un versante essenziale: in tutta questa storia, che fine ha fatto la sinistra? Ovviamente il tema è ben presente nel testo, che anzi potrebbe esser riletto come un inflessibile atto d’accusa nei confronti del “cedimento” verticale della sinistra. L’interrogativo è talmente pregnante che se l’è posto persino una fonte non certo sospettabile di simpatie comuniste quale il Financial Times: “La caratteristica più notevole dell’era della disuguaglianza e del libero mercato iniziata negli anni Ottanta consiste nel fatto che si siano avute così poche reazioni alla stagnazione dei guadagni della gente comune in una così larga parte dell’economia del mondo sviluppato”. D’altra parte, viviamo in tempi nei quali persino il governatore della banca d’Italia (cioè a dire il guardiano dell’inflazione) lamenta il fatto che i salari dei lavoratori sono troppo bassi! Come si spiega, insomma, che “questa guerra contro il lavoro e la democrazia ha potuto essere condotta (e vinta) senza difficoltà: senza incontrare grande resistenza, senza suscitare aspri conflitti (…) e con il sostegno di tanti lavoratori dipendenti?”. Una parte della risposta Burgio la rinviene, da un lato, nell’opera sistematica e pervasiva dei mezzi di informazione, per lo più monopolizzati dal potere economico e politico, e dalla loro capacità di plasmare le opinioni in una società frammentata e massificata; d’altro lato, la individua nello stesso “potere seduttivo della merce e del mercato”, nell’imporsi cioè di stili di vita e modelli individualistici che innalzano ad unico metro di valore il successo nella competizione sociale, il consumo effimero, la ricchezza. In una parola, le classi dominanti vincono la loro battaglia sul terreno dell’egemonia ideologica. Ma, appunto, questa è solo una parte della risposta: Burgio aggiunge altre due essenziali specificazioni. La prima riguarda gli Stati Uniti. Qui, accanto ai fattori ideologici, ha operato un dispositivo materiale di “inclusione sociale”: nonostante il crescere delle disuguaglianze, le politiche neoliberiste (di Clinton prima, di Bush poi) hanno nel contempo facilitato l’accesso al credito (e all’indebitamento) da parte delle famiglie medio-borghesi ed anche operaie, garantendosi il consenso di un nuovo blocco sociale. Com’è noto, la scelta dell’indebitamento privatosi è rivelata la causa prossima dei successivi disastri (leggi: subprimes). Tuttavia, essa ha per tutta una fase consentito di produrre un vero e proprio processo egemonico. Per l’Europa (e l’Italia, in particolare) il discorso è diverso. Il vecchio continente ha distribuito soltanto “lacrime e sangue”. Per questo, Burgio giudica inapplicabile al contesto europeo la nozione gramsciana di “rivoluzione passiva”: la quale implica una reale capacità di “direzione dall’alto” e una parziale soddisfazione delle istanze delle classi subalterne. Ad esser chiamato eminentemente in causa è qui il colpevole “trasformismo” dei gruppi dirigenti della sinistra (“politica e sindacale”): fattore decisivo è la sua “regressione moderata”. Al cuore di tale drammatico ripiegamento sta lo sfondamento operato a sinistra dall’ideologia dominante - profilatosi già a partire dagli anni Ottanta e conclamato all’indomani dell’implosione del “socialismo reale” – con l’adesione alle mitologie della “libera concorrenza”, l’ “abbandono della prospettiva di classe” e l’assunzione del “capitalismo (…) come orizzonte non trascendibile”. Significativa, in proposito, la lapidaria durezza di un editorialista quale Mario Pirani: “La classe operaia non è in paradiso. E’ stata solo dimenticata dagli smarriti eredi di quelli che un tempo simbolicamente si fregiavano della falce e martello e ha finito per rivolgersi per delusione, rabbia e umiliazione alla destra più o meno populista (…). Rifletta chi ancora ne è capace”.- Tutto questo appartiene allo sfondo storico della crisi attuale: una crisi “strutturale” cui il libro dedica gli ultimi capitoli ma che noi evitiamo in questa sede di analizzare in dettaglio, lasciando spazio alla curiosità dei lettori. Concludiamo la nostra ricognizione testuale, soffermandoci piuttosto sulle prospettive che la crisi medesima può aprire. La tesi di Burgio è molto netta ed è destinata a deludere quanti ritengano (dimenticando tra l’altro le lezioni del secolo scorso) che la pesantezza e il carattere sistemico della crisi possano automaticamente sconfessare, delegittimare le classi dirigenti che di essa sono responsabili. All’opposto, Burgio ritiene che un’uscita a destra dalla crisi resti pericolosamente nel novero delle possibilità: “Il punto è che, nonostante la crisi, l’oligarchia finanziaria non ha perso un palmo del proprio potere e pretende che a pagare la crisi siano solo le classi lavoratrici”. I trasferimenti a fondo perduto di somme gigantesche dai bilanci pubblici alle casse delle banche hanno “poco a che vedere con la disoccupazione dilagante, la povertà, il crollo della domanda e della produzione. Cioè con le conseguenze sociali della crisi”. Tali eccezionali esborsi avranno tra l’altro, come inevitabile conseguenza, l’impennarsi dei debiti pubblici, che “peserà sulla massa dei contribuenti sia per l’incremento della pressione fiscale, sia per effetto dell’inflazione conseguente all’aumento della massa monetaria, sia attraverso un’ulteriore deflazione dei bilanci pubblici (mediante massicci tagli della spesa sociale)”.E’ vero che, nel contesto della crisi, sono necessariamente cambiate le strategie dell’establishment: l’intervento pubblico, anche nella forma estrema della nazionalizzazione, come d’incanto non rappresenta più un tabù nemmeno per il personale politico a suo tempo implicato nelle politiche neoliberiste. Tuttavia, ancora una volta, nazionalizzare non è di per sé penalizzante per il capitale: “Se l’ingresso dello Stato nel capitale di una società quotata si risolve di fatto in una delega in bianco (in questo caso il presupposto è che le società ‘non possono fallire’, per cui le loro perdite ricadono sulla fiscalità generale), non è più possibile distinguere tra capitale pubblico e capitale privato. Siccome questa confusione si compie in un contesto segnato dal netto prevalere degli interessi e dei poteri privati, essa si risolve nella privatizzazione del patrimonio collettivo”. Non a caso, riferendosi alla mega-nazionalizzazione di Aig decisa dall’attuale segretario al Tesoro Usa Tim Geithner, l’economista Nouriel Rubini ha parlato di un emblematico esempio di “socialismo per i ricchi e per Wall Street”. In fondo - annota Burgio – è quel che dice Marx su ciò che resta davvero pubblico in regime capitalistico: “L’unica parte della cosiddetta ricchezza nazionale che passi effettivamente in possesso collettivo dei popoli moderni è il loro debito pubblico”. Ma allora, se non è di per sé il “ritorno dello stato”, qual è il punto dirimente di tutta questa vicenda? Risposta: come sempre, la posta è ciò che si vuol porre alla base del nuovo modello sociale, “l’obiettivo finale è l’assoluta subordinazione del lavoro dipendente”. Potremmo dire che tutto il libro di Burgio ruota attorno a questo punto. E’ qui, su questa “contraddizione principale”, che si gioca la partita decisiva. Su questo, il potere capitalistico non deflette e non accetta mediazioni. Anzi, prova ad imporre un “salto di qualità”: un nuovo regime neo-corporativo, spinto da una vera e propria “rivoluzione conservatrice”. Il paradosso è che a parole tutti vogliono rilanciare la domanda ma, nei fatti, nessuno intende concretamente risalire l’abisso della deflazione salariale: “Non è una svista – precisa il testo – è una contraddizione reale (…). Il capitale si trova a dover scegliere tra la crisi da sovrapproduzione (da deficit di domanda) e la crisi sociale (da piena occupazione e alti salari) e sceglie il male minore”, cioè la prima, quella che non mette in discussione il potere capitalistico. Questo sta avvenendo in Europa. Obama è un capitolo a parte, che - per la verità - il libro sfiora soltanto: in ogni caso, quel tanto che basta per non alimentare eccessivi ottimismi. Ma la partita è aperta e la crisi globale ha riaperto i giochi. I difensori dell’assetto sociale vigente e del suo modo di produzione sono in campo e giocano senza esclusione di colpi: occorre vedere chi c’è sul fronte opposto. Nel mondo, da tempo vanno profilandosi nuovi e potenti giocatori, outsider globali che insidiano le tradizionali città fortificate del capitale. In Italia, non tutti si rassegnano al mesto sfiorire di una sinistra di classe: ad essi consigliamo vivamente la lettura di questo libro.
Per informazioniA proposito del libro di Alberto Burgio "Senza democrazia - un'analisi della crisi"
“Piuttosto che azzardare previsioni, in questo caso è importante riconoscere i dati di fatto”. Alberto Burgio invita a osservare questo principio cautelativo nel capitolo conclusivo del suo recente Senza democrazia. Un’analisi della crisi (Derive Approdi, Roma 2009) e lo fa riferendosi ad una questione specifica: l’esito del “passaggio di fase” prodotto dalla crisi in atto (segnatamente in relazione al ruolo degli Usa, che oggi appare indebolito dalla crisi stessa e insidiato da nuove ed emergenti potenze globali). Su tale questione torneremo tra poco. Qui interessa annotare – come primo approccio al testo suddetto – che tale propensione per una descrizione empiricamente documentata pervade in realtà tutta la trattazione, la quale si presenta appunto minuziosamente supportata dalla rilevazione di “dati di fatto”. Tra questi, sono ovviamente preponderanti i dati economici. Ma attenzione, non si tratta di un libro di economia (né, com’è noto, chi lo ha scritto fa di mestiere l’economista). Direi che è – né più né meno – un libro di storia assai istruttivo, da far leggere per far capire il nostro tempo: precisamente, lo sfondo storico dell’attuale crisi. Tuttavia, per andare al cuore dell’ispirazione, va anche detto che si tratta di un libro scritto da un intellettuale comunista, per il quale non a caso continua ad avere un’importanza cruciale l’indagine della totalità sociale capitalistica e delle sue strutturali contraddizioni. E’ qui che troviamo la chiave di lettura dei dati. In effetti, Burgio completa la sua opera nel vivo della crisi (la data di edizione è aprile 2009), quando l’altalena delle notizie e delle previsioni è in frenetico movimento: difficile, per chi scrive in queste condizioni, a ridosso di un evento in pieno svolgimento, chiudere il cerchio dei ragionamenti. Se questo testo vi riesce, è perché colloca l’analisi alla giusta profondità, dilatando l’apertura del tempo storico e interpretando questa crisi come un evento che arriva da lontano, prodotto dalle tendenze di fondo della società capitalistica. La crisi in cui siamo a tutt’oggi immersi, insomma, non nasce come un fungo, a seguito di qualche errore (seppur significativo) di politica economica o perché nei luoghi che contano sono saltate alcune regole di comportamento virtuoso. Né dunque, per contenerla e scongiurare il suo riprodursi, basta semplicemente ripristinare un codice etico capace di tenere a bada l’avidità (greed) degli operatori economici. Come è specificato sin dalle prime pagine del libro, essa affonda le sue radici nel “secolo lungo”, nella pancia di un ‘900 che non è un “secolo breve”: che dunque non inizia nel 1915/18, con la Prima guerra mondiale e la Rivoluzione d’Ottobre, per finire col biennio 1989/91 e con la caduta del Muro di Berlino (secondo una fortunata formula, che peraltro è stata successivamente corretta dal suo stesso autore, Eric J. E. Hobsbawm). Sarebbe infatti impossibile dar conto di quella prima guerra mondiale, prescindendo dalle sue cause: “(…) i conflitti interimperialistici divampati negli ultimi trent’anni dell’Ottocento e la Grande Depressione che si intrecciò a essi tra il 1873 e il ‘96”; cause che “restano operanti anche nel dopoguerra, conducendo alla Grande crisi degli anni Trenta e al secondo conflitto mondiale”. Sarebbe parimenti inconcepibile pretendere di cogliere il significato degli avvenimenti prodottisi tra il 1989 e il 1991, astraendo dai loro effetti: “l’unificazione mondiale dei mercati”, con “l’irruzione del gigantesco esercito industriale di riserva dei Paesi in via di sviluppo”, “l’unificazione monetaria europea” e, soprattutto, “lo sfondamento capitalistico sul terreno dei rapporti di lavoro”. La descrizione dei fatti e le connesse periodizzazioni rimarrebbero appese al vuoto se non seguissero il filo della lotta di classe e dei rapporti di forza tra le classi, se non individuassero in quel decisivo snodo epocale l’estinguersi della “grande paura del comunismo” e il conseguente scatenarsi della “furiosa reazione” del capitale. E’ qui che il modo di produzione vigente viene modellando un nuovo assetto sociale: la trasformazione della società in un “grande mercato dominato dalle multinazionali” e la costruzione di “una vera società di massa, nella quale le élites comandano a proprio talento”.- In questo largo contesto storico vanno rintracciate, più specificatamente, le linee di tendenza che conducono alla crisi odierna: ed è lungo l’asse di una tale ricerca che Burgio indica gli anni Settanta come un decennio di importanza essenziale: “La realtà odierna nasce negli anni Settanta”. Già in quegli anni, infatti, spinto dall’emergere delle contraddizioni strutturali che avevano capovolto la tendenza progressiva della fase “aurea” postbellica, l’establishment dell’Occidente capitalistico - a partire dal suo centro propulsore, gli Stati Uniti - preparava la svolta e poneva le premesse della sua rivincita. Dopo il 1945, sulle macerie della secondo conflitto mondiale, il capitalismo aveva costruito la sua ripresa: un’ “età dell’oro” durata trent’anni, fino agli anni ’70. Attorno alla produzione fordista e sulla base del compromesso stabilito tra big business, big government e big unions, erano cresciute occupazione e spesa pubblica, i redditi da lavoro avevano conquistato quote di Pil (questo stesso in consistente crescita), seguendo la scia dell’aumento della produttività. L’emancipazione sul piano della democrazia e dei diritti sociali e civili aveva accompagnato in un sincronico processo ascendente la redistribuzione di reddito attuata dalle politiche keynesiane e lo sviluppo del welfare universalistico. Non va omesso il fatto che tutto ciò avveniva su uno scenario internazionale condizionato dalla presenza dell’Unione Sovietica: “A dispetto di tutti i suoi limiti” - annota Burgio - quest’ultima “costituì per circa settant’anni (…) una sfida e un riferimento fondamentale, non soltanto per la sinistra intellettuale, politica e sindacale di tutto il mondo, ma anche per i governi e le classi dirigenti dei Paesi capitalistici”, oltre che “la dimostrazione della concreta possibilità della transizione a un’altra forma sociale”. Per chi avesse scambiato la realtà strutturalmente contraddittoria della produzione capitalistica con il sogno illuministico di un lineare e indefinito progresso umano, gli anni ’70 hanno certamente costituito un brusco risveglio. Già a metà degli anni ’60, si manifestano le prime avvisaglie di crisi con “la progressiva saturazione dei mercati di beni di consumo”. Nel 1964 l’economia statunitense entra in recessione. La guerra del Vietnam assicura una tenuta nell’utilizzo degli impianti industriali ma, allo stesso tempo, costringe a enormi finanziamenti e ad una massiccia iniezione di liquidità: l’inflazione si impenna, portando fatalmente alla svalutazione della moneta Usa. Così, quando i detentori di grandi quantità di dollari cominciano a chiederne la conversione in oro, il Gold exchange standard – il sistema monetario inaugurato a Bretton Woods, che sino a quel momento aveva appunto ancorato all’oro il regime dei cambi – entra in crisi. Nell’estate del ’71 si produce “un evento di portata storica”: il presidente Nixon decide unilateralmente la fine della convertibilità aurea del dollaro (che viene dunque svincolato da ogni riferimento alle riserve auree della Banca centrale americana) e il passaggio al cosiddetto Dollar standard, sistema nel quale il dollaro diviene “moneta di riferimento internazionale su base assolutamente fiduciaria”. Nell’economia si esprime qui tutta l’arbitrarietà del potere politico e militare della grande potenza americana (tra gli altri, Burgio cita in proposito l’ex governatore della Banca d’Italia, Guido Carli: “Il potere del dollaro si è manifestato nella sua natura puramente egemonica”). Gli Stati Uniti acquisiscono infatti un grande privilegio: quello di ottenere dall’estero ricchezza (merci e capitali) in cambio di una moneta di cui possono stampare a propria discrezione quantità illimitate.- Ma la medaglia ha un rovescio negativo che farà sentire a lunga scadenza i suoi pesanti effetti: “Il riferimento all’oro poneva un limite all’espansione dell’indebitamento reale degli Stati Uniti”. Ora questo limite salta: “la possibilità di creare liberamente moneta e di aumentare a dismisura il volume delle importazioni sottrae stimoli alla produzione”. E l’economia Usa si trasforma progressivamente in “un’economia basata prevalentemente sulla rendita (finanziaria), sul consumo e sul debito”. Nella seconda metà degli anni ’70, la crescita e gli investimenti segnano il passo, la base industriale statunitense si riduce; per converso, cominciano ad aumentare esponenzialmente il debito estero e il deficit pubblico.In una società capitalistica, quando sono minacciati i margini di profitto, la contromisura sistematicamente adottata è l’attacco al salario. Non è un caso quindi che, nel contesto suddetto, prenda corpo una poderosa offensiva contro il mondo del lavoro. Opportunamente, il libro focalizza l’attenzione su di un episodio emblematico, un convegno sulla “crisi della democrazia” del 1975, promosso dalla Trilateral, una commissione che “da due anni riunisce esponenti del Gotha politico-finanziario di Stati Uniti, Europa e Giappone”. La responsabilità della crisi è individuata, oltre che nella debolezza del dollaro, nell’inflazione, nei disavanzi pubblici, nell’esorbitante pressione dei sindacati. La ricetta raccomandata è la decisa applicazione degli orientamenti monetaristi di Milton Friedman e della scuola di Chicago: taglio dei salari e precarizzazione del lavoro, riduzione della spesa sociale, privatizzazioni e privilegi fiscali per il capitale”. Questo sarà d’ora in avanti lo “spirito dei tempi”.Negli anni ’80, Reagan e la sua reaganomics negli Usa, la signora Thatcher in Inghilterra incarneranno al meglio tali orientamenti. Il modello reaganiano, consentirà di mantenere i margini di profitto e conservare agli Usa il ruolo di motore mondiale dello sviluppo: ma, anche qui, pagando alla lunga un prezzo che si rivelerà fonte di squilibrio strutturale. Per un verso, la crescita economica viene infatti sospinta dalla lievitazione della spesa pubblica (per via dell’enorme aumento della spesa militare) e dall’afflusso di capitali esteri, attirati anche dalla montante speculazione finanziaria. Per altro verso, l’aumento delle importazioni si coniuga con il calo degli investimenti interni e con un processo di deindustrializzazione, incentivato dalle delocalizzazioni di imprese alla ricerca oltre confine del più basso costo del lavoro. La vittoria sul lavoro – concretizzatasi nella deflazione salariale e nell’aumento della disoccupazione – e la costruzione di un modello di “economia globale di importazione fondata sul debito” indurrà, a partire dalla seconda metà degli anni ’80, una progressiva caduta della produttività del lavoro e della competitività dell’industria americana. La tendenza al rallentamento e alla stagnazione non si arresterà più e sarà solo temporaneamente interrotta - alla fine degli anni ’90 - dalla bolla della cosiddetta New economy (anch’essa implosa con la crisi del 2000/2001).A completare il quadro occorre menzionare un altro importante elemento, rappresentato da quella che non solo Burgio ritiene una “mossa decisiva, nel passaggio storico che dà forma al modello reaganiano”: con l’instaurazione del Dollar standard, vengono infatti eliminati i drastici vincoli imposti al libero movimento dei capitali (quei vincoli che Keynes considerava il risultato più importante conseguito con gli accordi di Bretton Woods). La totale discrezionalità concessa ai capitali nella ricerca del massimo rendimento dentro e fuori i confini nazionali e le successive misure di deregolazione dei mercati finanziari (la cosiddetta deregulation) vanno a costituire le basi della progressiva finanziarizzazione dell’economia, il brodo di coltura in cui prolifereranno quei “paradisi fiscali” e quei prodotti speculativi ad alto rischio di cui tanto si parla ai nostri giorni. La trattazione offre la giusta profondità storica per vedere che anche questi, lungi dall’essere le malattie passeggere di un corpo sostanzialmente sano, sono al contrario esiti da ascrivere strutturalmente alle “magnifiche sorti e progressive” della cosiddetta “globalizzazione” capitalistica. - Una posizione altrettanto centrale è occupata, nel testo di Burgio, dalle mutazioni “istituzionali” che presiedono a tale processo involutivo: ad essere affrontata di petto è né più né meno che la delicata questione del deperimento della democrazia. Il tema è ad esempio introdotto attraverso la citazione di un limpido brano di Noam Chomsky: “La liberalizzazione finanziaria è un’arma molto potente contro la democrazia. Il libero movimento dei capitali crea un parlamento virtuale di investitori e prestatori che analizzano i programmi dei governi e votano contro se li ritengono irrazionali, cioè se fanno gli interessi degli elettori invece che quelli di una forte concentrazione di potere privato”. Le grandi imprese multinazionali, i fondi di investimento, le grandi concentrazioni bancarie – entità depositarie di una forza economica esorbitante e persino superiore a quella di alcuni stati nazionali – si affermano come veri e propri “sovrani privati”, costituendo nuove concentrazioni di potere oligarchico. I singoli stati entrano nel sistema gerarchizzato dell’economia mondiale: “nel quale Stati e capitali forti esercitano un potere di controllo nei confronti degli Stati nazionali più deboli”. Smentendo una tesi molto di moda fino a qualche tempo fa (si veda Impero di Tony Negri), l’autorità statuale non scompare affatto. Ma cambia natura: abdicando alla sua funzione sociale e piegandosi agli interessi del big business. E’ la privatizzazione del potere pubblico, non la sua estinzione. In un tale contesto si rafforza l’assunto ideologico secondo cui - sempre e comunque - “privato” equivale ad efficienza e “pubblico” è sinonimo di spreco: tutto congiura in vista di una generale mercatizzazione della società. Quanto detto sgombra il campo da un significativo equivoco. Non è vero che l’epopea neoliberista, il “libero mercato” si sono affermati ai danni dello stato. E’ vero il contrario. I suddetti processi hanno infatti comportato una sempre più stretta commistione di potere economico e potere politico (non a caso i Ministri dell’Economia provengono ormai in prevalenza dall’ambito finanziario), come concreta espressione di una sempre più accentuata divaricazione tra sistema capitalistico e democrazia. Lungi dal ritrarsi, le autorità statuali e sovrastatuali (repubblicani e democratici, centro-destra e centro-sinistra) hanno attivamente agito, adeguandosi alle opinioni del “mercato”, determinando la centralità dei mercati finanziari e svuotando di contenuti progressivi le politiche economiche (statuali e sovrastatuali), rigorosamente circoscritte a politiche monetarie e di bilancio (vedi ad esempio l’ossessivo ossequio ai parametri di Maastricht). Ecco perché dire “intervento pubblico” o “intervento statale” non è di per sé dire “qualcosa di sinistra”: lo sapeva perfettamente Gramsci – puntualmente citato da Burgio – secondo il quale l’intervento statale è “una condizione preliminare di ogni attività economica collettiva”. Nello specifico capitalistico, l’intervento dello stato crea le premesse “politico-giuridiche” dell’estrazione di plusvalore e – aggiunge Burgio citando Marx – si manifesta come “coazione extraeconomica” attraverso l’impiego della “violenza legale”.- Finora, di questa assai preoccupante ricostruzione, abbiamo omesso un versante essenziale: in tutta questa storia, che fine ha fatto la sinistra? Ovviamente il tema è ben presente nel testo, che anzi potrebbe esser riletto come un inflessibile atto d’accusa nei confronti del “cedimento” verticale della sinistra. L’interrogativo è talmente pregnante che se l’è posto persino una fonte non certo sospettabile di simpatie comuniste quale il Financial Times: “La caratteristica più notevole dell’era della disuguaglianza e del libero mercato iniziata negli anni Ottanta consiste nel fatto che si siano avute così poche reazioni alla stagnazione dei guadagni della gente comune in una così larga parte dell’economia del mondo sviluppato”. D’altra parte, viviamo in tempi nei quali persino il governatore della banca d’Italia (cioè a dire il guardiano dell’inflazione) lamenta il fatto che i salari dei lavoratori sono troppo bassi! Come si spiega, insomma, che “questa guerra contro il lavoro e la democrazia ha potuto essere condotta (e vinta) senza difficoltà: senza incontrare grande resistenza, senza suscitare aspri conflitti (…) e con il sostegno di tanti lavoratori dipendenti?”. Una parte della risposta Burgio la rinviene, da un lato, nell’opera sistematica e pervasiva dei mezzi di informazione, per lo più monopolizzati dal potere economico e politico, e dalla loro capacità di plasmare le opinioni in una società frammentata e massificata; d’altro lato, la individua nello stesso “potere seduttivo della merce e del mercato”, nell’imporsi cioè di stili di vita e modelli individualistici che innalzano ad unico metro di valore il successo nella competizione sociale, il consumo effimero, la ricchezza. In una parola, le classi dominanti vincono la loro battaglia sul terreno dell’egemonia ideologica. Ma, appunto, questa è solo una parte della risposta: Burgio aggiunge altre due essenziali specificazioni. La prima riguarda gli Stati Uniti. Qui, accanto ai fattori ideologici, ha operato un dispositivo materiale di “inclusione sociale”: nonostante il crescere delle disuguaglianze, le politiche neoliberiste (di Clinton prima, di Bush poi) hanno nel contempo facilitato l’accesso al credito (e all’indebitamento) da parte delle famiglie medio-borghesi ed anche operaie, garantendosi il consenso di un nuovo blocco sociale. Com’è noto, la scelta dell’indebitamento privatosi è rivelata la causa prossima dei successivi disastri (leggi: subprimes). Tuttavia, essa ha per tutta una fase consentito di produrre un vero e proprio processo egemonico. Per l’Europa (e l’Italia, in particolare) il discorso è diverso. Il vecchio continente ha distribuito soltanto “lacrime e sangue”. Per questo, Burgio giudica inapplicabile al contesto europeo la nozione gramsciana di “rivoluzione passiva”: la quale implica una reale capacità di “direzione dall’alto” e una parziale soddisfazione delle istanze delle classi subalterne. Ad esser chiamato eminentemente in causa è qui il colpevole “trasformismo” dei gruppi dirigenti della sinistra (“politica e sindacale”): fattore decisivo è la sua “regressione moderata”. Al cuore di tale drammatico ripiegamento sta lo sfondamento operato a sinistra dall’ideologia dominante - profilatosi già a partire dagli anni Ottanta e conclamato all’indomani dell’implosione del “socialismo reale” – con l’adesione alle mitologie della “libera concorrenza”, l’ “abbandono della prospettiva di classe” e l’assunzione del “capitalismo (…) come orizzonte non trascendibile”. Significativa, in proposito, la lapidaria durezza di un editorialista quale Mario Pirani: “La classe operaia non è in paradiso. E’ stata solo dimenticata dagli smarriti eredi di quelli che un tempo simbolicamente si fregiavano della falce e martello e ha finito per rivolgersi per delusione, rabbia e umiliazione alla destra più o meno populista (…). Rifletta chi ancora ne è capace”.- Tutto questo appartiene allo sfondo storico della crisi attuale: una crisi “strutturale” cui il libro dedica gli ultimi capitoli ma che noi evitiamo in questa sede di analizzare in dettaglio, lasciando spazio alla curiosità dei lettori. Concludiamo la nostra ricognizione testuale, soffermandoci piuttosto sulle prospettive che la crisi medesima può aprire. La tesi di Burgio è molto netta ed è destinata a deludere quanti ritengano (dimenticando tra l’altro le lezioni del secolo scorso) che la pesantezza e il carattere sistemico della crisi possano automaticamente sconfessare, delegittimare le classi dirigenti che di essa sono responsabili. All’opposto, Burgio ritiene che un’uscita a destra dalla crisi resti pericolosamente nel novero delle possibilità: “Il punto è che, nonostante la crisi, l’oligarchia finanziaria non ha perso un palmo del proprio potere e pretende che a pagare la crisi siano solo le classi lavoratrici”. I trasferimenti a fondo perduto di somme gigantesche dai bilanci pubblici alle casse delle banche hanno “poco a che vedere con la disoccupazione dilagante, la povertà, il crollo della domanda e della produzione. Cioè con le conseguenze sociali della crisi”. Tali eccezionali esborsi avranno tra l’altro, come inevitabile conseguenza, l’impennarsi dei debiti pubblici, che “peserà sulla massa dei contribuenti sia per l’incremento della pressione fiscale, sia per effetto dell’inflazione conseguente all’aumento della massa monetaria, sia attraverso un’ulteriore deflazione dei bilanci pubblici (mediante massicci tagli della spesa sociale)”.E’ vero che, nel contesto della crisi, sono necessariamente cambiate le strategie dell’establishment: l’intervento pubblico, anche nella forma estrema della nazionalizzazione, come d’incanto non rappresenta più un tabù nemmeno per il personale politico a suo tempo implicato nelle politiche neoliberiste. Tuttavia, ancora una volta, nazionalizzare non è di per sé penalizzante per il capitale: “Se l’ingresso dello Stato nel capitale di una società quotata si risolve di fatto in una delega in bianco (in questo caso il presupposto è che le società ‘non possono fallire’, per cui le loro perdite ricadono sulla fiscalità generale), non è più possibile distinguere tra capitale pubblico e capitale privato. Siccome questa confusione si compie in un contesto segnato dal netto prevalere degli interessi e dei poteri privati, essa si risolve nella privatizzazione del patrimonio collettivo”. Non a caso, riferendosi alla mega-nazionalizzazione di Aig decisa dall’attuale segretario al Tesoro Usa Tim Geithner, l’economista Nouriel Rubini ha parlato di un emblematico esempio di “socialismo per i ricchi e per Wall Street”. In fondo - annota Burgio – è quel che dice Marx su ciò che resta davvero pubblico in regime capitalistico: “L’unica parte della cosiddetta ricchezza nazionale che passi effettivamente in possesso collettivo dei popoli moderni è il loro debito pubblico”. Ma allora, se non è di per sé il “ritorno dello stato”, qual è il punto dirimente di tutta questa vicenda? Risposta: come sempre, la posta è ciò che si vuol porre alla base del nuovo modello sociale, “l’obiettivo finale è l’assoluta subordinazione del lavoro dipendente”. Potremmo dire che tutto il libro di Burgio ruota attorno a questo punto. E’ qui, su questa “contraddizione principale”, che si gioca la partita decisiva. Su questo, il potere capitalistico non deflette e non accetta mediazioni. Anzi, prova ad imporre un “salto di qualità”: un nuovo regime neo-corporativo, spinto da una vera e propria “rivoluzione conservatrice”. Il paradosso è che a parole tutti vogliono rilanciare la domanda ma, nei fatti, nessuno intende concretamente risalire l’abisso della deflazione salariale: “Non è una svista – precisa il testo – è una contraddizione reale (…). Il capitale si trova a dover scegliere tra la crisi da sovrapproduzione (da deficit di domanda) e la crisi sociale (da piena occupazione e alti salari) e sceglie il male minore”, cioè la prima, quella che non mette in discussione il potere capitalistico. Questo sta avvenendo in Europa. Obama è un capitolo a parte, che - per la verità - il libro sfiora soltanto: in ogni caso, quel tanto che basta per non alimentare eccessivi ottimismi. Ma la partita è aperta e la crisi globale ha riaperto i giochi. I difensori dell’assetto sociale vigente e del suo modo di produzione sono in campo e giocano senza esclusione di colpi: occorre vedere chi c’è sul fronte opposto. Nel mondo, da tempo vanno profilandosi nuovi e potenti giocatori, outsider globali che insidiano le tradizionali città fortificate del capitale.
piero